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Il silenzioso fallimento delle università del Regno Unito #adessonews

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Negli ultimi anni, il settore universitario del Regno Unito ha vissuto un’apparente età dell’oro. Le statistiche sono impressionanti: il numero di studenti è cresciuto del dodici per cento nell’anno 2021/2022, raggiungendo i 2,9 milioni di studenti, che hanno contribuito con settantuno miliardi di sterline al Pil nel Paese. 

Un numero record di giovani ha avuto accesso all’università di loro scelta, con un aumento significativo degli studenti provenienti da contesti svantaggiati. Atenei di fama internazionale come Oxford e Cambridge sono regolarmente classificate tra le migliori al mondo, con ben quattro istituzioni britanniche tra le prime dieci e quindici tra le prime cento a livello globale.  Ma – come recita il famoso detto popolare – non è tutto oro ciò che luccica. Questo successo è infatti costruito su basi estremamente fragili: dietro il prestigio che abbaglia si nasconde una crisi finanziaria che rischia di far crollare l’intero sistema accademico britannico.

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Se da un lato, infatti, i numeri sembrano indicare un periodo di prosperità, dall’altro si intravede una realtà ben diversa. Molte università del Regno Unito stanno operando in deficit, e il problema è solo destinato a peggiorare nei prossimi anni. E sebbene fino a ora nessun ateneo in Regno Unito sia mai andato in bancarotta (il che è un bel record per un settore con oltre novecento anni di storia) quel giorno potrebbe non essere troppo lontano. 

I college del Paese si trovano a fronteggiare costi operativi crescenti, mentre le entrate non riescono a tenere il passo. Lo conferma anche una recente ricerca del Russell Group, una rete di ventiquattro università britanniche che ricevono in totale oltre due terzi dei finanziamenti alla ricerca nel Regno Unito: ogni studente britannico oggi costa più di quanto l’università riceva dalle tasse di iscrizione e dai contributi governativi.

Le difficoltà finanziarie degli atenei britannici hanno radici profonde nelle riforme di finanziamento attuate nel 2012. Queste riforme hanno aumentato le tasse universitarie a circa novemiladuecentocinquanta sterline all’anno riducendo drasticamente i finanziamenti pubblici diretti. Questa mossa trasferì l’onere finanziario dagli enti governativi agli studenti, aumentando il peso del debito studentesco e creando una situazione in cui le università dipendono in gran parte dalle tasse degli iscritti per finanziare le proprie attività.

Nell’anno accademico 2022/23, proprio queste tasse rappresentavano il novantatré per cento delle entrate totali del settore, rispetto al sessantaquattro per cento del 2011/12. 

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Il problema si è presentato forte e chiaro quando il valore reale delle tasse universitarie è diminuito a causa dell’inflazione. Infatti, mentre negli ultimi anni il costo della vita aumentava, le tasse universitarie sono rimaste bloccate al livello del 2017. 

Oggi, le novemiladuecentocinquanta sterline pagate dagli studenti valgono circa seimila sterline se rapportate ai prezzi del 2012. Questo significa che le università devono fare di più con meno risorse, mettendo così sotto pressione i bilanci e costringendo molte istituzioni a ridurre i costi attraverso tagli ai servizi e al personale.

Senza le ricche dotazioni che sostengono le università statunitensi o altre fonti di reddito significative, gli atenei britannici si sono rivolti agli studenti internazionali, che pagano tasse molto più alte. La loro dipendenza da questa fonte di reddito è aumentata con l’aumento del numero di iscritti. Ma una volta che la crescita di questa tipologia di studenti si è trasformata in calo, una resa dei conti era inevitabile.

Proprio in questo contesto, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è stato un altro fattore determinante. La Brexit ha avuto un impatto devastante sulle iscrizioni di studenti europei, che un tempo rappresentavano una parte significativa del corpo studentesco internazionale.

Ora, gli studenti provenienti dai Paesi dell’Unione Europea sono trattati come studenti internazionali e quindi costretti a pagare rette molto più alte; rendendo così il Regno Unito meno attraente come destinazione per l’istruzione accademica. A ciò si aggiungono le complicazioni burocratiche legate ai visti, che rendono più difficile per gli studenti europei studiare nel Regno Unito. 

Di conseguenza, molte università, già dipendenti dai fondi provenienti dalle tasse degli studenti internazionali, si trovano a fronteggiare un calo nelle iscrizioni, esacerbando ulteriormente la crisi finanziaria.

Secondo il rapporto dell’Office for Students, il quaranta per cento degli atenei del Paese opererà in deficit quest’anno, con alcuni di loro che affrontano il terzo anno consecutivo di perdite finanziarie. Anche nello scenario più ottimistico, che prevede una stabilizzazione del numero di iscrizioni internazionali, questi istituti continueranno ad operare in deficit nei prossimi anni. 

Nello scenario peggiore, invece, con un calo significativo degli studenti stranieri, la percentuale delle università in deficit potrebbe raggiungere l’ottantaquattro per cento. Ciò significa che la maggior parte degli atenei britannici non avrà abbastanza fondi per coprire le proprie spese, con conseguenze devastanti per il sistema educativo in tutto il Paese.

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Le misure finora adottate per fronteggiare la crisi, come tagli al numero dei corsi e riduzioni del personale, sono solo soluzioni temporanee e non affrontano il problema strutturale di un sistema di finanziamento che ha ormai superato la sua data di scadenza. Se non si interviene con riforme significative, non è da escludere che alcune università possano essere costrette a chiudere o a fondersi per sopravvivere.

Di fronte a questa crisi, cresce la pressione sul governo britannico affinché intervenga con misure di salvataggio per evitare il collasso del settore universitario. Diversi esperti e sindacati del settore hanno infatti chiesto un piano di salvataggio d’emergenza, che potrebbe includere prestiti garantiti dallo Stato o un aumento delle sovvenzioni dirette alle università. Tuttavia, queste misure non risolverebbero il problema di fondo: il modello di finanziamento basato su tasse universitarie stagnanti e una crescente dipendenza dagli studenti internazionali non è sostenibile nel lungo termine.

Il Partito Laburista, guidato dal primo ministro Keir Starmer, ha riconosciuto la diffusa situazione di crisi degli atenei del Paese, promettendo azioni concrete per garantire il futuro di tali istituzioni. Il Labour ha infatti delineato tre impegni distintivi, dichiarando che intende collaborare strettamente con le università, integrandole in una strategia industriale che influenzerà il finanziamento della ricerca, la formazione professionale e le norme sull’immigrazione. 

Inoltre, il governo di Starmer dovrebbe proporre una strategia unificata per l’istruzione dopo i sedici anni di età, che mira a migliorare sia l’apprendimento basato sul lavoro che l’accesso all’università. Questa proposta suggerisce un approccio più coordinato e collaborativo che unirebbe università, governo locale, industria, servizi pubblici e altre componenti del sistema educativo. 

Tuttavia, per avere successo, tale approccio deve essere supportato da un modello di finanziamento sostenibile, un aspetto che, per il momento, il governo non ha ancora affrontato.



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