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Meloni e il populismo fiscale: come pestare sul ceto medio #adessonews

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Tra le vergogne che vanno corrette in Italia, veri scandali al sole, la nostra premier addita “i bonus per ristrutturare la seconda o la terza casa”. Nella prossima manovra verranno cancellati perché è finita, annuncia Meloni, “la stagione in cui si gettano soldi dalla finestra per ottenere il consenso”. Gli aiuti pubblici andranno soltanto a chi ne ha bisogno, mai più a pioggia. Nella platea cui Giorgia si è rivolta giovedì (gli imprenditori di Confindustria) nessuno ha obiettato e, in via di principio, chi non sarebbe d’accordo? Se l’Italia è sommersa dai “buffi”, se il debito sfiora i tremila miliardi, se non abbiamo nemmeno i soldi per scuola sanità e pensioni, la colpa ricade sulla prodigalità dei politici. 

Sui bonus, francamente, si è esagerato; su quelli edilizi in modo particolare. Con il 110 per cento lo Stato ha elargito perfino più di quanto veniva speso, come non accade nemmeno nel paese di Cuccagna. Era chiaro che saremmo finiti a zampe per aria. Di sospendere il Superbonus non si poteva fare a meno; idem sfrondare la giungla degli aiuti alla casa dove fiorisce di tutto, dagli sconti fiscali per i mobili a quelli per i rubinetti o per le aiuole. Era perfino giusto abbassare i “bonus” cosiddetti ordinari, per ristrutturare l’abitazione, riportandoli al 36 per cento originario dal 50 attuale, dimezzando il tetto delle spese detraibili da 96mila a 48mila euro come pare il governo sia orientato a fare. In altri Paesi europei lo Stato non è altrettanto generoso. Bisogna metterci un freno.

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Insomma: la premier potrebbe dire “signori siamo al verde, non c’è il becco d’un quattrino, dobbiamo tirare la cinghia per onorare i patti con Bruxelles” (che tra parentesi ha sottoscritto lei). Una serena constatazione del guaio in cui siamo. Ma non è stato questo l’argomento usato da Meloni, non il principale perlomeno. Giorgia ne fa piuttosto un tema di giustizia, di equità sociale denunciando lo sconcio, perché tale appare ai suoi occhi, dei bonus alle “seconde e terze case”; come dire le ville dei benestanti, le loro magioni al mare o in montagna, addirittura i castelli ristrutturati coi soldi di tutti (tema classico della propaganda meloniana). Miliardi riversati su chi non li merita anziché destinarli a quanti ne avrebbero autentica necessità. Spesi a Capalbio, è il sottinteso, invece che a Coccia di Morto. I poveracci delle periferie scavalcati dai soliti noti. Si coglie un senso di rivalsa nelle sue parole, un moto dell’animo, uno sfogo.

Qui il tema si fa stimolante, denso di suggestioni. Per esempio viene da chiedersi se la seconda casa rappresenti davvero un lusso tipo yacht e caviale, come lo considera il populismo fiscale. O non sia invece un bene rifugio dove investire i risparmi per evitare che se li mangi l’inflazione, un investimento magari fidandosi di quanto la destra ha sempre detto: “La casa è sacra, con noi non verrà mai tassata”. E qui non ci sono dubbi: eliminare, in nome del giustizialismo tributario, dei bonus sulla casa che esistono da mezzo secolo (con precisione dal 1986, quando a Palazzo Chigi regnava Bettino Craxi) equivale ad elevare la tassazione, a imporre sulle seconde case una gabella che si aggiunge alla patrimoniale sugli immobili, vale a dire l’Imu. Gabella salata, per giunta: le spese di ristrutturazione di colpo raddoppiano. Metà se le cucca lo Stato. Ma non è detto che, a fronte delle maggiori imposte, l’Erario ci guadagni. Tutto dipende dall’onestà fiscale.

Obiettivo del bonus casa, almeno in origine, era far emergere il “nero”. Consisteva nell’evitare che, per non pagarci le tasse, proprietari e imprese si rifugiassero nel sommerso. Lo Stato faceva lo sconto su quanto gli era dovuto pur di incassare una parte: piuttosto che niente, meglio piuttosto. L’eccesso di rigore, spiegava un tempo Giulio Tremonti, rischia di essere criminogeno; più schizzano in alto le tasse, più diventa conveniente evaderle, magari con il contante. È al fondo la filosofia che ispira il concordato preventivo biennale appena offerto dal governo in carica alle partite IVA: voi ci date qualche spicciolo, noi vi condoniamo l’evasione futura. C’è dietro una logica, sia pure perversa. Con i proprietari delle seconde case, invece, e delle terze, e così via, Meloni fa la faccia feroce. A loro niente bonus, non se lo meritano. Giorgia inflessibile pretende l’intera cifra sul presupposto, ottimistico, che lo Stato riuscirà a ottenerla. Tanti auguri.

Altra osservazione, stavolta di tipo politico. Penalizzare la seconda casa significa danneggiare il comparto. Ma soprattutto colpisce chi può permettersela: cioè i ceti medi, quanti hanno messo due soldi da parte senza averli rubati. Ancora loro, sempre loro. Che non appena superano i 50 mila euro lordi annui versano la stessa aliquota Irpef di Paperon de’ Paperoni. Trattati quali parassiti se si tratta di adeguare le pensioni al costo della vita. Equiparati adesso dalla premier (in quanto percettori di bonus sulla seconda casa, grande sogno piccolo borghese) ai percettori “nullafacenti” del reddito di cittadinanza. Tartassati e per giunta offesi. Se questa è la destra, direbbero a Roma, “aridàtece i communisti”.

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