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Sindi Manushi e la cittadinanza italiana: «Lasciata l’Albania a 14 anni nel limbo. Non potevo votare ora sono sindaco» #adessonews

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diSilvia Madiotto

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La prima cittadina di Pieve di Cadore (Belluno): «Molti non capiscono le difficoltà»

Sindi Manushi nel maggio dell’anno scorso è diventata la prima cittadina italiana di origine albanese ad essere eletta sindaco, a Pieve di Cadore, nel Bellunese. È arrivata in Italia quando aveva 8 anni, ha studiato fra le montagne, poi si è laureata in giurisprudenza ed è diventata avvocato. Ha 32 anni ma non dimentica quei 14 anni di limbo: italiana a tutti gli effetti, ma senza cittadinanza fino ai 22.

Sindaco, lei è favorevole o contraria alla riforma della cittadinanza e allo ius scholae?
«Assolutamente favorevole. Io preferirei lo ius soli, ma il parlamento nonostante diverse proposte non ha mai approvato una riforma e dubito che si possa fare con l’attuale governo. Quindi va bene la proposta di Fora Italia, basta che si muova qualcosa perché i tempi per ottenere la cittadinanza sono davvero troppo lunghi. Benvenga ogni proposta migliorativa».




















































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Lei quando è diventata cittadina italiana?
«Sono arrivata in Italia nel 2001, sono diventata cittadina nel 2015, ero all’università. Mi sembra tardivo: 14 anni sono la prassi, dieci di residenza, quattro per la burocrazia, servono requisiti legali ed economici, ma serve troppo tempo. E adesso i tempi sono anche più lunghi».

Da sindaco, le capita mai di trovarsi davanti a bambini, famiglie o lavoratori senza diritti o con problemi dovuti alla mancata cittadinanza?
«Non sono io l’interlocutore per queste pratiche, però ormai per gli immigrati è normale amministrazione. Sanno che funziona così. Ma mentalmente è faticoso: per la gita all’estero occorre una trafila di visti e consolati che i compagni di classe non devono fare. Con la carta d’identità si muovono ovunque. Gli italiani non si rendono nemmeno conto di quanto sia importante, all’estero, il passaporto italiano».

E lei? Che problemi ha affrontato?
«La mancata libertà di movimento è molto penalizzante. A 18 anni non potevo votare: vivevo qui, studiavo qui, ma non potevo esprimere il mio voto. Sono diplomata al liceo classico, poi mi sono iscritta a giurisprudenza. Al secondo anno mi hanno chiesto un certificato B1 di lingua italiana. Sono piccoli inciampi, a volte assurdi e quasi divertenti come questo, ma sono frustranti».

Lei a 18 anni, dieci vissuti qui, non poteva votare. Ma un oriundo con bisnonno di Pieve di Cadore può chiedere la cittadinanza e votare.
«Eh sì, questo dice la legge, è quasi assurdo».

Anche nel suo Comune ci sono problemi di gestione con le pratiche ius sanguinis?
«Meno che in altri Comuni, però le molte domande appesantiscono la macchina dell’anagrafe. Siamo riusciti a smaltire l’arretrato grazie al lavoro delle impiegate, ma c’è un problema enorme dal punto di vista materiale in molti enti. E poi è un’ingiustizia. Persone che mai hanno vissuto qui, a cui non interessano le sorti del nostro Paese, votano e decidono ciò che interessa chi vive qui, lavora qui, e non ha diritto di votare. Assurdo e deplorevole».

Su una modifica di questa legge, una parte del centrodestra sarebbe favorevole.
«Ma sono contrari allo ius scholae. È opportunismo. Quello che serve davvero è andare a fondo, comprendere il significato della cittadinanza, senza la lente dell’ideologia».


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21 settembre 2024

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