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VENEZIA È passato più di un decennio – per l’esattezza 10 anni e tre mesi – dal blitz che scoperchiò lo scandalo del Mose, il sistema di difesa di Venezia dalle acque alte, realizzato anche al prezzo di laute tangenti. Ma i conti presentati dalla giustizia ai protagonisti di quelle pagine di corruzione, che macchiarono la grande opera di ingegneria idraulica, non sono ancora stati completamente saldati. Una vicenda annosa che ruota attorno alle confische milionarie stabilite dalle sentenze, che probabilmente non arriverà mai a recuperare le intere somme, ma che ieri ha comunque segnato un altro punto a favore dello Stato: su disposizione della Procura, la Guardia di Finanza di Venezia ha notificato la confisca di 21 milioni e 400mila euro a due dei principali corruttori, poi diventati “grandi accusatori” dell’inchiesta che scoperchiò il malaffare, Piergiorgio Baita, già presidente della Mantovani, colosso padovano delle costruzioni, e Niccolò Buson, già direttore amministrativo della stessa società. Per il momento il valore dei beni effettivamente recuperati ai due ammonta a un milione e 90mila euro, ma la verifica dei conti correnti potrebbe far salire il totale.
I BENI CONFISCATI
Una caccia ostinata, quella dei finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria di Venezia, che ha consentito di ricostruire, anche «attraverso accertamenti bancari, atti di spoliazione patrimoniale in favore di familiari – spiega in un comunicato stampa la stessa Procura – (atti di donazione, trasferimento fondi attraverso il sistematico invio di bonifici bancari, nonché mediante la rinuncia di credito)». Poco meno della metà del milione già confiscato sarebbe costituito proprio da somme transitate in questo modo dai conti di Baita padre a quelli di Baita figlio. Ed ecco le donazioni, le remissioni di debiti, ma anche le operazioni immobiliari, per cui il figlio doveva dei conguagli al padre, in realtà mai versati.
Il resto della confisca effettiva è rappresentata per lo più da beni immobili. Un appartamento del valore di 250mila euro a Treviso, ancora dell’ex presidente della Mantovani. A Buson, invece, è stata confiscata un’automobile e una serie di fabbricati: un appartamento a Padova, una casa nel comune di Pemunia, sempre nel Padovano, con due terreni vicine, varie quote di garage.
Si è detto che per il totale del confiscato bisognerà attendere la verifica dei conti bancari dei due ex manager. Le richieste agli istituti di credito sono partite ieri, ci vorrà qualche giorno. Intanto «si è dato avvio – precisa ancora il comunicato della Procura – all’esecuzione della confisca, nella misura di 1/5, dei ratei di pensione spettanti ai due destinatari della misura ablativa». D’ora in poi, insomma, l’Inps “taglierà” alla fonte i versamenti dovuti a Baita e Buson, che godono entrambi di pensioni importanti. Sarà un’entrata fissa per lo Stato.
LA SENTENZA
La nota della Procura ricorda come per la vicenda Mose, in passato, siano già stati confiscati 18 milioni e 56mila euro. A cui ora si aggiunge questo milione e 90mila euro recuperato a Baita e Buson. La sentenza che li riguarda risale al 2019, quando i due patteggiarono la pena insieme agli altri tre collaboratori dell’inchiesta, Pio Savioli, Mirco Voltazza e Claudia Minutillo. L’ex presidente della Mantovani se la cavò con due anni (in continuazione con il patteggiamento del 2013 per le false fatture). Un anno e 8 mesi la pena che patteggiò l’ex direttore amministrativo.
Tutti ottennero la sospensione condizionale della pena, la riduzione di un terzo della pena (dovuto alla scelta del patteggiamento) e dei due terzi per l’attenuante speciale concessa dalla legge Severino a chi aiutava la procura a scoprire reati di corruzione. Fu in quella sentenza che il giudice per l’udienza preliminare, Gilberto Stigliano Messuti, fissò l’entità delle confische per un totale di 23 milioni e mezzo. Le fette più importanti, divise in base ai reati commessi, toccarono proprio a Baita e Buson, con 10 milioni e 700 mila euro a testa. Quelli per cui ieri sono state notificate le confische.
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