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Il pericolo di ricordarci dell’inverno demografico solo una volta all’anno #adessonews

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Il tema della demografia emerge solo quando è citato dal Papa, dall’Istat o dal presidente della Repubblica, ma ci scordiamo che il suo valore è strettamente legato al benessere collettivo. Se il tasso scende sotto l’1,5 è difficile invertire la rotta, e in Italia è già a 1,2. Ma non tutti i numeri sono drammatici. Indagine

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La demografia, questa sconosciuta. Nel nostro paese si accenna a questa disciplina poche volte all’anno, quando qualcuno – in genere una fonte autorevole come il presidente della Repubblica, il Papa o l’Istat – ricorda a tutti la questione dell’inverno demografico, cioè il basso tasso di fecondità. Su questo non siamo soli, se vogliamo consolarci: trattasi di una tendenza che interessa tutto l’occidente. Il tasso di fecondità basso è fortemente correlato al benessere (e a tutti i cambiamenti strutturali e sociali che questo comporta e produce). Per grandi linee: più sei povero più figli fai, più sei benestante meno figli fai, e siccome per grandi numeri, rispetto al passato remoto, oggi siamo tutti più benestanti, finora non c’è stato verso di invertire la tendenza: solo l’Africa e parte dell’Asia presentano ancora una popolazione giovane. Per il momento.
 

Ma proviamo a definire meglio la situazione: la soglia di sostituzione è il tasso di fecondità che permette di mantenere la popolazione a un livello stabile. È un valore stimato intorno a 2,1. Diciamo che, per ora, una componente sempre più ampia dell’umanità vive all’interno di società con livelli di fecondità al di sotto di quello necessario al ricambio generazionale. Per capire l’inesorabilità di questa discesa, prendiamo un po’ di dati dal bel libro di Vaclav Smil, I numeri non mentono (Einaudi): “Nel 1950, il 40 per cento della popolazione mondiale abitava in paesi con un tasso di fecondità superiore a 6, mentre la media mondiale era 5. Nel 2000, solamente il 5 per cento della popolazione mondiale viveva in paesi con un valore superiore ai 6 figli per donna. Nel 2050, le proiezioni demografiche ci dicono che quasi tre quarti dell’umanità risiederanno in paesi con un tasso inferiore alla soglia di sostituzione”. Ora, se i valori rimangono vicini a quelli necessari per il ricambio generazionale, cioè non meno dell’1,7, allora nel futuro ci sono buone possibilità di recupero (al 2022, Francia e Svezia si attestano a 1,8, Romania a 1,71, Bulgaria a 1,65 e Repubblica Ceca a 1,64). Ma una volta scivolati sotto l’1,5 un’inversione di tendenza appare sempre più improbabile. E noi italiani? Noi, appunto, siamo terzultimi: il tasso di fecondità da noi è sceso parecchio, a 1,2. Ma, come dicevamo, la compagnia non ci manca: guida la classifica Malta (1,14), e a seguire c’è la Spagna (1,16).
 

Capite che non sono solo indici “curiosi”, da citare una volta all’anno, come se fossimo nella sezione “Non tutti sanno che” della gloriosa Settimana enigmistica. Un simile mutamento globale ha già avuto e avrà ancora conseguenze strutturali, economiche e strategiche. Cambia tutto intorno a noi, ma noi stiamo ancora a dibattere nei talk-show su governo sì, governo no. Le strategie politiche quotidiane, se non comparate e costruite sugli scenari demografici, non servono a niente, come se bucassimo la notizia. Certo, poi di demografia un po’ se ne interessano le assicurazioni, per ovvi motivi. Di tanto in tanto arriva qualcuno di sinistra e dice che la questione inverno demografico verrà risolta dagli immigrati, mentre quelli di destra dicono il contrario, e cioè che agli italiani devono pensarci le donne italiane. Comunque, a parte queste piccole schermaglie tra destra e sinistra, l’assenza della demografia nel dibattito pubblico provoca un notevole handicap analitico che fa registrare in tutti noi un deficit di immaginazione e di curiosità verso lo stato dell’arte del mondo: che sta cambiando molto velocemente.
 

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Osserviamo per esempio alcuni elementari mutamenti di scenario: nel 1900 l’Europa ospitava circa il 18 per cento della popolazione mondiale, nel 2020 siamo scesi al 9,5 per cento, mentre al contrario l’Asia ha visto crescere i propri cittadini, tanto è vero che nel 2020 la sua popolazione era il 60 per cento di quella mondiale. Allo stesso tempo sta emergendo l’Africa, e difatti gli alti livelli di fecondità regionali garantiscono a questo continente quasi il 75 per cento delle nascite che si avranno nei cinquant’anni tra il 2020 e il 2070 a livello mondiale. Vedete? Tutto cambia: non così lontano da noi occidentali si aprono nuovi mercati, e noi perdiamo forza. E se perdiamo forza anche i flussi migratori potrebbero a breve invertire la direzione. Capisco che siamo presi dalle immagini tristi e orribili di migranti che arrivano sui barconi, e per associazione pensiamo che le secolari rotte di migrazione siano immutabili. Ma non è detto che continui così. È pur vero che il processo di globalizzazione che è partito in sordina da metà Ottocento, ed è continuato fino alla Prima guerra mondiale, fu economico e demografico. Ed è pur vero che il flusso migratorio portò milioni di persone da continenti ricchi di manodopera e poveri di terra verso regioni ricche di terra e povere di risorse umane. Ma è anche vero che alla fine di questo lungo e ancora in corso processo migratorio, Europa e Americhe si trovarono più vicine (il gioco non è stato a costo zero, i nostri avi portano ancora le ferite di quei viaggi). Ora, non è detto che in futuro si ripeta pari pari questo processo. Già alcuni indici demografici sembrano illustrare bene l’andamento. Ce lo ricorda Massimo Livi Bacci (Storia minima della popolazione del mondo, il Mulino): “Visto l’aumento della popolazione, il numero dei migranti per 100 abitanti è aumentato di poco: era il 2,5 per cento nel 1960, il 3,6 nel 2015”. Ma – come sottolinea lo stesso Livi Bacci – questo l’aveva già scritto l’economista Jagdish Bhagwati vent’anni prima, e da allora abbiamo molti dati a supporto: nonostante la rapidità dei processi di mondializzazione e la crescita degli scambi migratori nella seconda metà del secolo scorso, per molto tempo non si è avuto un allargamento dei sistemi migratori, cioè di quelle aree caratterizzate da forze centripete e di attrazione su un insieme di aree di provenienza (gli hub attrattivi sono 4, quello del Nord America, quello europeo, quello del Golfo e uno in via di formazione che coinvolge le economie in via di sviluppo del Sud Est asiatico). Se le popolazioni si muoveranno seguendo le rotte già tracciate, o, come è possibile, cambierà la bussola, dipenderà dal gioco e dall’equilibrio delle disparità demografiche, economiche, e dal ruolo dei cambiamenti climatici.
 

Nel 2020 la popolazione asiatica era il 60 per cento di quella mondiale. In Africa il 75 per cento delle nascite che si avranno tra 2020 e 2070 nel mondo

Altra questione importante che la demografia analizza è l’aumento dell’aspettativa di vita. Da una parte è un bel successo, dovuto tra le altre cose a migliori accessi alle cure sanitarie e all’alto livello tecnologico di queste cure, risultato di tanta ricerca e impegno collettivo. Ma la domanda infame è: stiamo aggiungendo vita agli anni o anni alla vita? Senza badare alle sfumature, l’aumento della vita media (le previsioni suggeriscono che si arriverà a vivere fino a 93 anni di media) sarà sostenibile economicamente? La percentuale degli anziani con oltre 65 anni, nel 2020, nei paesi sviluppati, si aggirava attorno al 16 per cento, e sappiamo che crescerà ancora nei prossimi decenni. Questo vuole anche dire che, a fronte di qualcuno che a 85 anni scopre la propria quinta giovinezza e magari si compra una moto e se ne va in giro per il mondo facendo gridare al miracolo, crescerà fortemente la percentuale dei molto anziani. E dunque anche l’incidenza di patologie fortemente invalidanti come le demenze senili e, di conseguenza, ci sarà un forte aumento della spesa sanitaria. In effetti, tra il 1990 e il 2022 la percentuale di spesa per la sanità nelle maggiori economie occidentali (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito e Italia) è cresciuta in media dal 7,3 al 12,3 per cento. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, è cresciuta dall’11,3 al 16,6 per cento.
 

A proposito dell’invecchiamento della popolazione, vogliamo parlare dei sovranismi? Invecchiamo e diventiamo nostalgici, sosteniamo che una volta era meglio, che non ci sono più i dittatori di una volta. Purtroppo siamo fatti male, invecchiando si è più propensi a edulcorare il passato (si chiama bias della retrospezione rosea), dunque l’analisi rigorosa del passato cede il posto ai ricordi viraggio seppia. Tendiamo poi a difendere i confini, cerchiamo le radici, spesso ce le inventiamo. Diventiamo conformisti, meno fiduciosi nel prossimo, crediamo di più nell’autorità. Una popolazione che invecchia è più favorevole ai sovranismi. E una popolazione che invecchia sarà capace di analizzare lo stato dell’arte e legiferare per tempo? Penserà ai giovani se i giovani non rappresentano che una modesta percentuale della popolazione? Magari, metterà più facilmente in atto politiche economiche in favore della percentuale più rilevante della popolazione, cioè la fascia dai 40 in su. Una popolazione che invecchia adotterà o non adotterà correttivi pensionistici?
 

Ora, il mondo si sta complicando anche perché siamo troppi. Già abbiamo problemi con le riunioni di condominio, pensate se il condominio si allarga a dismisura. Il cammino di crescita della popolazione mondiale è iniziato due secoli fa, un ciclo di crescita intenso: quando sono nato nel 1966, c’erano 3,4 miliardi di persone. La crescita della popolazione è dovuta al miglioramento della produzione agricola, all’abbassamento della mortalità infantile, ai vaccini, agli antibiotici, alle pratiche igieniche e alle fognature. Nel mondo prospero questo ciclo sembra ormai spento, esaurito, ma in realtà è ancora in pieno sviluppo in quello povero. Se questi paesi riusciranno a raggiungere il benessere economico, la crescita della popolazione rallenterà e si stabilizzerà con delle oscillazione tra i 10 e gli 11 miliardi di persone. Ma a proposito di benessere, domanda infame: i paesi ora più poveri per crescere avranno bisogno di quelle stesse risorse (ammoniaca, acciaio, cemento, plastica) che noi abbiamo sfruttato a suon di combustibili fossili negli ultimi 100 anni? Se sì, si pone un bel paradosso: per limitare la crescita della popolazione è necessario un livello di benessere che è più facile ottenere con gli efficienti combustibili fossili, che però sono fortemente inquinanti e climalteranti.
 

La domanda infame sull’aumento dell’aspettativa di vita è: stiamo aggiungendo vita agli anni o anni alla vita? Patologie e spesa sanitaria

Diciamo che tutto andrà bene, non cresceremo certo a dismisura, ma saremo comunque in tanti. Così numerosi, come e dove vivremo? Certo non nei boschi, lontani dalla pazza folla, come alcune riviste patinate ogni tanto ipotizzano, raccontandoci le storie di quelli che vivono in casette ecosostenibili in mezzo alla natura. Più probabile che vivremo in megalopoli, e già succede. Bene, come portare cibo di qualità ed elettricità a questi agglomerati? Come amministrarli, rinfrescarli (aumenteranno le isole di calore), limitare le schifezze che buttiamo nell’aria?
 

Abbiamo iniziato con i numeri, chiudiamo allora con un riassunto numerico. Secondo le Nazioni Unite i punti da affrontare sono questi: 1) la popolazione mondiale raggiunge 9 miliardi nel 2036, 10 miliardi nel 2062; 2) il tasso d’incremento della popolazione mondiale, attualmente pari a 0,8 per cento, risulterà dimezzato nel 2050; 3) poiché il tasso d’incremento, di valore decrescente, interesserà una popolazione sempre più numerosa, l’incremento di 72 milioni annui nel 2020 scenderà lentamente fino a 40 milioni nel 2050; 4) il valore di 9,7 miliardi per la popolazione dell’anno dipende quasi totalmente dall’effettiva diminuzione del numero medio di figli per donna previsto in discesa da 2,35 del 2020 al 2,15 nel 2050. Ogni decimo di punto in più o in meno, rispetto al valore ipotizzato alla fine del periodo, implica, all’incirca, 220 milioni di abitanti in più, o in meno, nel 2050; 5) la popolazione dei paesi sviluppati resterà approssimativamente invariata, e tutto l’aumento della popolazione sarà attribuibile alla crescita dei paesi in via di sviluppo; 6) forti sono i mutamenti geodemografici. Tra il 2020 e il 2050 il peso della popolazione dei paesi sviluppati scenderà dal 16,3 al 13,2 per cento della popolazione mondiale, il peso dell’Europa scenderà ancor più rapidamente, da 9,5 a 7,3 per cento.
 

Nel mondo povero aumenterà fortemente il peso della popolazione subsahariana, che passerà dal 14,3 per cento del 2020 al 22,3 del 2050; 7) le ultime proiezioni delle Nazioni Unite si avventurano con spericolatezza fino alla fine del secolo: il mondo toccherebbe i 10 miliardi nel 2062 e raggiungerebbe il livello massimo di 10,3 nel 2079 per poi scendere a 10 nel 2100, in uno stato di oscillante stazionarietà. Nel 2100, su ogni 100 abitanti del globo, 38 vivrebbero in Africa, una proporzione più che doppia di quella attuale. Ultima domanda forse ancora più infame, ma necessaria: come sapiens saremo la soluzione ai problemi o, a forza di trovare soluzioni, sprecheremo energia e peggioreremo ancora di più la qualità della nostra vita? Forse pensarci (alle questioni demografiche) per tempo, e non una volta all’anno, aiuterebbe di certo.
 

Se i paesi che crescono oggi riusciranno a raggiungere il benessere economico, l’aumento della popolazione rallenterà e si stabilizzerà





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