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Non basta la spending review dei ministeri. Riprende quota l’ ipotesi di prelievo extra alle banche. Servono più soldi per ridurre ancora l’Irpef. L’incognita dei proventi del Concordato biennale  

A poche ore dalla scadenza della mezzanotte di martedì, quando il governo dovrà dare via libera al Documento programmatico di bilancio (Dpb) da inviare alla Commissione europea, la lista finale dei provvedimenti e il loro impatto su conti pubblici è ancora al centro di scambi e baratti tra le diverse anime della maggioranza. Ormai, però, non c’è più tempo: l’accordo va trovato in fretta, anche perché entro lunedì l’esecutivo dovrà depositare in Parlamento la legge di Bilancio, che, come di consueto, sarà poi oggetto di emendamenti e correzioni varie tra Camera e Senato.

Effetto tesoretto

La trattativa, come detto, è tutt’altro che chiusa, ma ci sono alcuni punti fermi su cui andrà costruita una manovra che si aggira intorno ai 25 miliardi, una somma da trovare incrementando le entrate o tagliando le spese. Poco meno di un terzo di questa cifra, cioè circa 9 miliardi, arriverà sotto forma di maggiore deficit, una sorta di tesoretto garantito in sostanza da entrate tributarie più alte del previsto che vanno a migliorare lo stato dei conti a suo tempo delineato nel Def (Documento di economia e finanza) della primavera scorsa.

Restano quindi da finanziare circa 16 miliardi ed è su questa parte della manovra che ruotano le discussioni di queste settimane. L’obiettivo del governo è quello di confermare il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti fino a 35 mila euro di reddito annuo lordo, con la prospettiva di renderlo strutturale per i prossimi anni, e la riduzione da tre a quattro delle aliquote Irpef. Le due misure costano in totale almeno 15 miliardi che sono già coperti per oltre la metà attingendo al Fondo per la riduzione della pressione fiscale e a quello per l’attuazione della riforma tributaria.

Nei giorni scorsi è stata avanzata l’ipotesi di intervenire sul meccanismo della riduzione del cuneo per favorire i contribuenti con guadagni di poco superiori ai 35 mila euro, oggi molto penalizzati. Così come non è stata ancora accantonata la proposta di ridurre la seconda aliquota dal 35 al 33 per cento.

Per queste due correzioni in corsa servirebbe però una somma compresa tra i 3 e 4 miliardi. Trovarli non sarà facile, anche perché queste coperture si sommerebbero a quelle ancora mancanti per il resto della manovra, che ammontano ad almeno 9 miliardi.

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Da settimane la giostra delle ipotesi gira a tutta velocità, ma a questo punto i vari partiti della maggioranza saranno costretti a trovare un punto d’incontro tra le diverse posizioni in campo. Lo scontro più rumoroso è stato quello sul prelievo a carico degli extraprofitti per le società che hanno visto aumentare di molto gli utili grazie alla congiuntura favorevole degli ultimi anni.

Si è parlato soprattutto di banche, difese a spada tratta da Forza Italia (la famiglia Berlusconi è grande azionista di Mediolanum), ma anche delle aziende del settore difesa e dell’energia. L’ipotesi di un’imposta straordinaria ha perso quota in questi giorni, ma non è escluso un ritocco dell’Ires, l’imposta sugli utili societari, per alcune categorie di imprese. Un intervento che andrebbe comunque in senso contrario rispetto a quanto a suo tempo messo nero su bianco nei programmi di governo, che prevedono invece un alleggerimento dell’Ires.

Meno sconti sulle tasse

Quanto alle accise, al centro di una raffica di dichiarazioni di esponenti della maggioranza, la linea ufficiale adesso è quella che l’incremento (un centesimo l’anno) delle tasse sul gasolio saranno compensate da una pari diminuzione di quelle sulla benzina. Secondo questa versione, l’effetto netto sui cittadini sarebbe quindi nullo. Resta però da capire come questa “rimodulazione” potrebbe produrre un aumento effettivo delle entrate, anche tenendo conto che in Italia si consuma più benzina di gasolio e gli autotrasportatori, garantiscono i partiti di governo, verrebbero tenuti al riparo da ogni prelievo extra.

Anche la riforma delle cosiddette spese fiscali ha fin qui prodotto una montagna di parole ma ben poche proposte concrete per sfoltire il lunghissimo elenco di detrazioni, deduzioni e cediti d’imposta a favore delle più svariate categorie. Il totale di queste agevolazioni vale oltre 120 miliardi di euro, ma la gran parte valgono pochi milioni e quindi un eventuale taglio non sarebbe granché d’aiuto, mentre gli sconti più cospicui, in settori come la sanità e la casa, sono di fatto intoccabili per motivi di consenso politico. Resta la possibilità di ridurre ulteriormente rispetto a quanto già fatto le agevolazioni a favore dei redditi più elevati, ma difficilmente i proventi di queste revisioni supererebbero il miliardo.

Per questo motivo Giorgetti nei giorni scorsi è tornato a insistere sulla spending review, cioè i tagli alle spese dei ministeri, peraltro già previsti dai piani di governo sulla riduzione spesa pubblica, l’ultimo dei quali varato dal governo in carica nel novembre 2022 e poi rivisto nel 2023. Il totale dei risparmi già pianificati ammontava a 1,5 miliardi per il 2024 e 2 miliardi nel 2025. Cifre che ora andrebbero riviste al rialzo, superando la comprensibile opposizione dei ministeri.

A queste incognite se ne aggiunge un’altra non da poco sul fronte delle entrate, che riguarda i proventi del concordato preventivo biennale. Il governo da principio sperava di racimolare circa 3 miliardi, traguardo che appare difficile da raggiungere nonostante gli incentivi, anche sotto forma di condono fiscale, varati a favore delle partite Iva. La scadenza per le adesioni è fissata al 31 ottobre. Come dire che le cifre della manovra andranno corrette in corsa, dopo la prima versione da presentare la prossima settimana.

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