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Dazi Usa sull’alluminio, l’Italia sotto tiro: tariffe fino al 41,67% #finsubito prestito immediato


Quando gli Stati Uniti decidono di alzare la voce, lo fanno senza troppe cerimonie. E stavolta nel mirino ci sono i produttori italiani di alluminio, che si ritrovano a fare i conti con nuovi dazi sull’esportazione di estrusi e profilati. Si parte con un 13,19%, ma per chi non ha risposto alle sollecitazioni del dipartimento del Commercio americano, si arriva fino a un pesantissimo 41,67%. Una manovra che colpisce solo l’Italia in Europa, mettendo in seria difficoltà un settore che vale centinaia di milioni di euro.

Quest’anno, gli Stati Uniti hanno esteso i dazi antidumping su estrusi e profilati di alluminio a diversi Paesi, non solo l’Italia: nel computo troviamo anche India e Vietnam. Queste misure si inseriscono in un’indagine su larga scala avviata dal dipartimento del Commercio americano, volta a contrastare il dumping, ovvero la vendita di merci a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato.

I produttori di India e Vietnam, insieme a quelli di altre nazioni come l’Italia e la Cina, sono ora soggetti a tariffe punitive, con l’obiettivo di proteggere l’industria dell’alluminio americana. Le tariffe variano a seconda del Paese e del livello di cooperazione con l’indagine, e sono una risposta diretta alle lamentele dei produttori interni statunitensi, che accusano la concorrenza estera di pratiche commerciali sleali.

Tariffe punitive: chi è finito nella rete

La decisione non arriva certo dal nulla. Il Corriere e l’International Trade Insights raccontano che tutto comincia con una denuncia presentata dalla U.S. Aluminium Extruders Coalition, che accusa i produttori esteri di pratiche di dumping. A quel punto, l’amministrazione Biden ha risposto prontamente, avviando un’indagine su quindici Paesi, tra cui appunto l’Italia. Dopo mesi di controlli, il 27 settembre scorso è arrivata la doccia fredda: dazi sulle esportazioni italiane, con tariffe che arrivano al 41,67% per le aziende che non hanno risposto ai questionari inviati dagli Stati Uniti.

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Nonostante le recenti visite diplomatiche a Roma della segretaria al Commercio americano Gina Raimondo, la questione dei dazi sembra essere stata trattata con molta discrezione e soprattutto molto silenzio. Le grandi aziende italiane del settore, molte delle quali concentrate in Lombardia, si sono ritrovate dunque a fare i conti con una misura che potrebbe minacciare il loro accesso al mercato statunitense, tra i più importanti a livello globale.

Le ripercussioni sul settore italiano dell’alluminio

Il rischio di vedere il settore italiano messo in ginocchio è concreto. L’alluminio estruso, che viene lavorato ad alte temperature per creare prodotti come serramenti, facciate, componenti per il settore automobilistico e aerospaziale, mobili e impianti fotovoltaici, ha una filiera ben radicata nel nostro Paese. Le esportazioni dirette di questi prodotti verso gli Stati Uniti valgono circa 110 milioni di euro all’anno. Ma questa cifra, di per sé già significativa, non tiene conto dei componenti in alluminio che vengono incorporati in beni di altro tipo, come accessori di design e articoli per l’edilizia.

Non è solo una questione di volumi, però. L’Italia si trova in una posizione scomoda, l’unico Paese europeo colpito da queste misure punitive. Questo potrebbe aprire le porte ai competitor europei come Spagna, Germania e Francia, che potrebbero approfittare della nostra esclusione per guadagnare fette di mercato negli Usa. L’associazione Confimi Industria ha già espresso preoccupazioni a riguardo, temendo che l’industria manifatturiera italiana subisca un duro colpo.

Il gioco politico dietro i dazi e gli altri paesi coinvolti

Dietro a questa mossa americana, c’è anche una forte componente politica. Le aziende di alluminio più influenti, come Arconic e Alcoa, sono radicate in stati strategici come la Pennsylvania e la Georgia, territori cruciali per le elezioni presidenziali americane del 2024.

C’è stata in generale assenza di un’azione decisa da parte del governo italiano. Se da una parte la diplomazia ha fatto il suo corso durante le recenti visite a Roma, dall’altra non sembra esserci stata una protesta pubblica contro questa decisione.





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