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Desert Suite, alla ricerca dell’Itaca interiore: intervista a Fabrizio Ferraro #finsubito prestito immediato


Dopo studi cinematografici, filosofici e musicali, Fabrizio Ferraro ha iniziato a dedicarsi alla fotografia e alla regia. Nel 2009 ha diretto Je suis Simone La condition ouvrière, ottenendo la menzione speciale al 27mo Torino Film Festival. Tra il 2011 e il 2021 ha diretto cinque lungometraggi di finzione e quattro documentari, tra cui La veduta luminosa, unico lungometraggio di finzione italiano presentato nella selezione ufficiale di Forum alla Berlinale 2021, e I morti rimangono con la bocca aperta, presentato alla Festa del Cinema di Roma nel 2022 e vincitore del Premio Speciale Gabbiano al Bellaria Film Festival. Nel 2021 la Viennale aveva già dedicato un focus personale al suo lavoro. In questa intervista ci facciamo raccontare della sua ricerca e di Desert Suite, presentato in anteprima al Festival del Cinema della Biennale di Venezia e in questi giorni alla 62ma edizione della Viennale, in svolgimento fino al 29 ottobre 2024 e diretta dall’italiana Eva Sangiorgi.

Fabrizio Ferraro

Buongiorno Fabrizio, la mia prima domanda è: perché hai scelto questo titolo?

«Ho scelto questo titolo per il carattere ambivalente dei termini. La “suite” può riferirsi a una camera d’albergo, ma anche a una suite musicale. Inoltre, il deserto è un concetto ambivalente: ci trasmette assenza di vita, ma è anche un luogo di possibilità, una nuova fondazione della vita. In questo senso, i nomadi nel deserto riescono a costruirsi un nuovo modo di vivere e una nuova comunità».

Possiamo dire che il tuo film esplora una forma di migrazione sconosciuta?

«Sì, assolutamente. La migrazione, il deserto, i nomadi: tutto questo è connesso. Siamo abituati a vedere la migrazione solo come qualcosa che proviene dall’esterno, dall’Occidente, ma c’è anche una migrazione di persone che vorrebbero uscire da questa bolla, da questa prigione trasparente dell’Occidente, e non riescono. È come se fossimo entrati in un grande grattacielo, dove la vita è racchiusa all’interno, senza possibilità di uscita. Questa migrazione cerca un’essenza fondamentale della vita, sempre più sottile, in cui l’unico riferimento è un apparato tecnologico. In questo nuovo contesto, il Dio di riferimento non è più Madre Terra o il Sole, ma è la religione tecnologica e la fede assoluta nella scienza, un nuovo dogma».

Desert Suite, Fabrizio Ferraro, 2024

Il tema della droga nel tuo film, quel monologo o dialogo in cui si descrive ogni sostanza, rappresenta una metafora visiva del tuo film?

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«Più che una metafora, è un’esperienza concreta che si fa attraverso le immagini. Di solito, l’associazione tra metafora e immagine ci porta a qualcosa di distante dall’esperienza fisica del vedere. C’è il rischio di creare una limitazione terminologica, ma è proprio un’esperienza trasformativa di ciò che vediamo».

Chiedevo questo perché nel primo dialogo e in un secondo, sempre legato alla droga, si parla di Peyote e Ayahuasca, che sembrano rappresentare un viaggio più interiore, una riscoperta di se stessi. Come la vedi?

«Hai ragione. Con le immagini e l’esperienza che tutti noi condividiamo nel vedere le cose, percepiamo solo la superficie di ciò che c’è dentro. Quando ci relazioniamo con una persona, vediamo solo l’apparenza—il volto, l’abbigliamento—ma sotto c’è uno spessore che si porta dietro la storia di ognuno, ciò che abbiamo vissuto. L’esperienza del cinema e dell’immagine può far emergere tutti questi aspetti, anche attraverso l’esperienza di alcune droghe, permettendo di connettersi con questa profondità».

Qual è il ruolo della musica nel film?

«La musica inizia, penso, al minuto 19, la prima volta che la sentiamo. Quando la musica non è solo un commento, diventa un altro elemento relazionale, come l’incontro con il vento o un rumore improvviso durante una passeggiata a Bruxelles. Il trattamento della musica è quindi una massa sonora, un’esperienza, non un commento critico su ciò che vediamo».

Tre registi, vivi o morti, che hanno influenzato la tua carriera?

«Potrei citarne molti, ma per farti un’idea, tra i più insospettabili ci sono Buster Keaton e Jacques Tati. Ma ci sono anche i grandi maestri come De Sica, Rossellini e Antonioni, fino a Jean-Marie Straub, Daniel Huillet, Godard e Siegel. Ogni regista ha un elemento che mi interessa. Mi piacciono quegli autori che ti portano in uno stato in cui non hai più le parole come commento; ti lasciano sbalordito, incredulo, e quindi cerchi di trovare la parola. Questi autori, tantissimi, sono come una squadra di calcio che porto con me».

Come si incrociano filosofia e cinema?

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«È in questo processo che abbiamo appena discusso. Il pensiero subentra dopo che le immagini hanno messo in crisi il nostro confine e la nostra posizione nel mondo. Solo allora inizia la riflessione. Se il percorso fosse inverso, con il pensiero che precede l’esperienza cinematografica, il cinema perderebbe significato, poiché l’esperienza sarebbe addomesticata dal pensiero. Mi interessano anche la filosofia, le arti, la pittura e la musica, che ampliano il nostro pensiero, facendoci vedere qualcosa nella vita e cercare di capire ciò che sta accadendo mentre scorre via».

Desert Suite, Fabrizio Ferraro, 2024
Desert Suite, Fabrizio Ferraro, 2024

I premi sono importanti?

«I premi sarebbero importanti perché aiutano a realizzare più film. Tuttavia, ricordo sempre una frase di Cézanne che afferma che i premi sono, in realtà, una prigione per tutto. Rappresentano un riconoscimento da parte di un mondo che non dovrebbe riconoscerti, in un contesto così critico e stereotipato. Tuttavia, sono sempre ben accolti perché possono aiutarti a realizzare altri progetti».

Desert Suite sarebbe la tua ricerca personale sull’Itaca?

«Continua a esplorare. Anche nei film che abbiamo presentato qui a Vienna, la retrospettiva di due anni fa seguiva una linea di “unwanted”, gli indesiderati. Ora abbiamo avviato una serie di film sul carattere opposto, i “wanted”, opere che nascono internamente e non al confine, non al di fuori del mondo riconosciuto».

E la Patria?

«Nel film c’è Marco Fellini che fa il pusher. A un certo punto, dice a Gianmaria D’Alessandro, il protagonista, “Perché tutti gli italiani vengono a drogarsi qui? Forse non amate così tanto il vostro paese”. Questo riflette una situazione molto problematica in Italia e in tutta Europa, legata a questo senso di prigione trasparente. In Italia, la situazione è complessa e nel film non c’è una sequenza girata qui; le uniche parole italiane provengono da un pusher, il che non è casuale».

Ti senti un migrante interno?

«Mi sento un apolide, un nomade. Fare film è un atto di migrazione, di ricerca di luoghi e connessioni, di forme diverse di vita. Ogni film che realizzo è una fuga».

Che consiglio daresti a questa generazione digitale, considerando il ruolo che gioca nel tuo film?

«Il consiglio che darei è di non seguire le imposizioni tecnologiche, ma di seguire i movimenti naturali del corpo e della vita. È importante rompere con le prigioni imposte dalle estetiche dominanti, dalle telecamere digitali e dalle piattaforme, e cercare fughe autentiche».

Un referente latinoamericano che fa parte della tua cinematografia?

«Sì, sicuramente Fernando Birri, argentino, con cui avevo un intenso rapporto d’amicizia. Mi ha insegnato ad avvicinarmi all’immagine e al cinema con lo sguardo della meraviglia, senza mai credere che tutto sia già conosciuto. Birri fondò una scuola di cinema con Gabriel García Márquez, ed è stato molto importante per me. Ci sono anche molte altre esperienze, come quelle di Solanas in Argentina e il cinema nove brasiliano. Sfortunatamente, non sono molti i film latinoamericani che arrivano qui; spesso sono selezionati per farci conoscere solo alcune espressioni. Mi piacerebbe vedere più varietà, come un film commerciale filippino che di solito non arriva, o opere sperimentali dal Latinoamérica».

Il pubblico deve andare ai festival, ma non tutti hanno la possibilità. I tuoi film, ad esempio, sono spesso proiettati solo nei festival.

«È vero, ma dobbiamo continuare a combattere. Per esempio, la prossima settimana il film sarà distribuito nei cinema in Italia, anche se non in 600 copie, ma in poche. Comunque, siamo presenti e incontriamo le persone. È importante porre domande, perché non si tratta di trasmettere certezze cinematografiche o esistenziali, ma di stimolare una riflessione sulla possibilità di fuoriuscire da questo mondo che ci imprigiona».

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L’ultima domanda: qual è il colore della tua vita?

«Il blu».



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