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Dieselgate, e poi? Il peccato originale dell’auto europea e cosa è successo dopo #finsubito prestito immediato


di
Francesco Bertolino

Vale il 7% del Pil del Vecchio Continente, fino alla pandemia ha conosciuto un decennio d’oro. Poi è cominciata la rincorsa: ai piani e al mercato di Pechino, a Tesla, agli approvvigionamenti e all’elettrico

Maggio 2015. A Pechino il premier Li Keqiang presenta il piano Made in China 2025 che punta a trasformare il Paese da fabbrica del mondo a potenza tecnologica d’avanguardia in diversi settori. Fra loro, la mobilità elettrica che sarà coltivata a suon di incentivi economici – oltre 230 miliardi in 15 anni — e regolamenti stringenti. A 10 mila chilometri di distanza, intanto, nei laboratori di Ann Arbor, in Michigan, i tecnici dell’Agenzia statunitense per la Protezione dell’Ambiente fanno una scoperta scioccante: Volkswagen ha montato sulle sue auto un software per truccare le emissioni dei motori a gasolio, abbattendole solo durante i test. È l’inizio del Dieselgate che costerà al gruppo tedesco oltre 32 miliardi. E del declino dell’auto europea che si intreccia con l’ascesa dell’industria cinese. «Lo scandalo Dieselgate é arrivato all’apice di un ciclo economico molto lungo, che é partito dalle ceneri del crac finanziario del 2009 ed é perdurato fino al 2019», ricorda Dario Duse, responsabile per l’Italia di AlixPartners e leader Automotive & Industrial team Emea.

Il triennio d’oro

La corsa sembrava destinata a proseguire: per i consumatori cinesi l’auto occidentale era un simbolo della nuova prosperità e per alcune case europee le vendite nel Paese rappresentavano circa il 50% dei profitti totali. Poi, è arrivato il cigno nero della pandemia, seguito da una lunga serie di crisi: il boom dei prezzi energetici, l’interruzione delle forniture di componenti e materie prime da Russia e Ucraina, la carenza di chip. «Tra il 2020 e 2023, l’industria dell’auto ha dato prova di una flessibilità inaspettata per una produzione così complessa navigando disruptions diverse e con impatti molteplici», rimarca Duse. «L’ultimo triennio si è rivelato un’età dell’oro per le case che, sfruttando lo squilibrio fra offerta scarsa e domanda in rimbalzo dopo il calo del 2020, sono riuscite ad alzare i prezzi anche del 20% rispetto ai livelli del 2019 ottenendo aumenti dei profitti molto significativi». 




















































La battaglia dei prezzi

Chi ha sognato che questi guadagni fossero la nuova normalità, però, è andato incontro a un brusco risveglio. «A partire dal 2023 è iniziata in Cina una battaglia dei prezzi che si è poi allargata in tutto il mondo». L’età dell’oro si è insomma rivelata una breve parentesi nella guerra dei 100 anni fra i costruttori che nella feroce competizioni per le quote di mercato sono costretti a sacrificare i margini di profitto. L’industria europea sta avendo la peggio. Vuoi per la stagnazione dell’economia Ue, vuoi per la pressione del Green Deal Ue, dopo il Dieselgate i costruttori del Vecchio Continente hanno progressivamente perso l’avanguardia tecnologica. E sono diventati inseguitori dell’innovazione altrui.

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La rincorsa cinese

Prima si sono messi alle calcagna di Tesla, la cui valutazione di Borsa stellare ha abbagliato alcuni manager dell’auto, spingendoli a presentare piani di investimento da decine di miliardi su elettrificazione e tecnologia ben prima che la domanda giustificasse la spesa. Poi hanno iniziato una precipitosa rincorsa ai costruttori cinesi sull’elettrificazione. Accorgendosi tuttavia, d’un tratto, che il piano Made in China 2025 ha raggiunto per tempo il suo scopo, sottraendo loro l’eldorado cinese. «Nel 2017 i costruttori occidentali controllavano il 57% delle vendite in Cina», ricorda Duse, «nel 2024 la quota è crollata al 35%». E c’è il rischio che possa scendere ancora. «Si calcola che in Cina ci sia un eccesso di capacità pari a oltre 20 milioni di veicoli, superiore alla totalità del mercato europeo». 

Il nuovo equilibrio

Non stupisce allora che le case e i governi Ue temano l’offensiva delle vetture cinesi e che la Commissione abbia deciso di costruire una barriere doganale, alzando fino al 46% i dazi sull elettriche prodotte in Cina, per proteggere un settore che vale il 7% del pil e il 7% dell’occupazione in Europa. «La storia dell’auto ha visto in passato diverse minacce di invasione da nuovi costruttori o regioni che sembravano destinati a sbaragliare la concorrenza, ma in una industria cosi rilevante e competitiva alla fine si é sempre creato un nuovo equilibrio competitivo», osserva Duse. Negli anni ‘70 si parlava solo dei giapponesi e del loro lean manufacturing, poi negli anni ‘90 è arrivata l’ondata sudcoreana, infine a partire dal 2010 è partita la Tesla-mania, con l’obiettivo di Elon Musk di arrivare a venderne 20 milioni entro il 2030. Quest’anno faticherà a raggiungere i 2 milioni.

Il 40 per cento di troppo

Probabilmente, insomma, anche la minaccia cinese si ridimensionerà col tempo, non senza causare profondi sconvolgimenti. «La vera novità è che per le case occidentali la Cina si è trasformata da terra di conquista a — nella migliore delle ipotesi — fronte di strenua difesa delle posizioni acquisite», avverte Duse. La ritirata asiatica sta privando i gruppi europei della principale valvola di sfogo per la sovraccapacità produttiva delle loro fabbriche patrie. «Si stima che un impianto debba operare almeno al 75% della sua capacità per essere profittevole», calcola Duse. «Oggi, probabilmente molti sono intorno al 60%, il che significa che c’è un eccesso del 40% che in assenza di extra profitti derivanti da prezzi elevati, supporti economici post-covid e tassi di interesse bassi non é piu sostenibile in uno scenario di volumi stagnanti o con crescite molto basse». 

Stellantis e l’Italia

Ecco perché Volkswagen ha deciso di infrangere il tabù delle fabbriche in Germania, paventando di chiuderne alcune. E perché i sindacati dell’auto temono che lo stesso possa fare Stellantis in Italia e si sono quindi indire il primo sciopero unitario da 30 anni per chiedere garanzie all’azienda e al governo. «Per uscire dal tunnel l’industria dell’auto europea deve quindi tornare all’avanguardia del contenuto e dell’innovazione e il presupposto è che sia libera di farlo anche per raggiungere l’obiettivo – indiscutibile- della decarbonizzazione», conclude Duse. A quasi 10 anni dal Dieselgate, è tempo che le case europee traccino la loro strada per la mobilità del futuro, da sole o tramite alleanze. Purché la trovino in fretta.

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