Resistono solo sette province, di cui quattro siciliane, ma per il resto dei territori si registra il medesimo andamento, a cominciare proprio dall’Isola: ad avviare un’attività imprenditoriale in Italia sono rimasti solo gli stranieri, o quasi. È quanto emerge dal nuovo report della Cgia di Mestre, che nell’ultimo decennio, dal Nord fino alla Sicilia, fotografa una crescita del 30% di aziende guidate da titolari nati all’estero, mentre le ditte italiane sono scese del 4,7%, con picchi (in entrambe le voci) rilevati in alcuni distretti metropolitani o liberi consorzi comunali del Mezzogiorno.
Tra questi, in quarta posizione nella speciale classifica dopo Napoli, Brindisi e Taranto, c’è Trapani, che dal 2013 al 2023 ha visto un rialzo del 55% di imprenditori immigrati e una perdita di oltre 1.500 attività gestite da nativi. Sopra la media nazionale anche la provincia di Ragusa, con un rialzo del 38% di partite Iva aperte da stranieri, mentre Enna (+15%), Caltanissetta (+9,3%) e Agrigento (+5,4%) vedono aumenti più contenuti ma comunque pesanti ribassi, in termini assoluti, di imprese tricolori sparite, segnando, rispettivamente, 384, 468 e 1.258 unità in meno.
Ma in Sicilia ci sono pure le eccezioni, che in questo caso spiccano ancor di più, come mosche bianche in tutto lo Stivale. Si tratta di Catania, Messina, Siracusa e Palermo. Le prime tre, infatti, pur vedendo crescere il numero di titolari d’azienda nati in altri Paesi, registrano ancora una soglia di imprenditori italiani superiore a quella estera, mentre la provincia palermitana conta una flessione del 6,5% di stranieri e un rialzo di 2.693 aziende indigene.
Ma, per l’appunto, sono eccezioni che confermano la regola, spiegabile con «il trend demografico registrato in questi ultimi anni, certo», ma anche con il fatto che «tasse, burocrazia, caro-bollette, costo degli affitti e un senso perenne di precarietà che attanaglia la vita di tantissime partite Iva hanno smorzato in molti italiani la voglia di affermarsi nel mondo del lavoro attraverso l’autoimprenditorialità. Occasione, invece, che gli stranieri non si stanno lasciando scappare».
Il sorpasso, continua l’associazione degli artigiani, può portare, «in linea generale» a «due considerazioni oggettive. La prima è positiva: chi apre una attività dimostra di aver avviato un percorso di inclusione importante, perché è stato costretto a rapportarsi con alcune istituzioni pubbliche, eventualmente con un istituto di credito a cui è stato chiesto un prestito, periodicamente con il commercialista e una volta iniziata l’attività con i propri fornitori. Insomma, queste persone diventano parte attiva del sistema economico».
La seconda, invece, è negativa, perché «non sarebbero trascurabili le attività economiche a guida straniera avviate per “coprire” operazioni di evasione e commercializzazione su larga scala di merce contraffatta. Creando non pochi problemi anche di concorrenza sleale nei confronti delle imprese italiane dello stesso settore».
Infine, e in riferimento alla nazionalità, gli imprenditori stranieri maggiormente presenti in Italia sono i romeni, seguiti da cinesi, marocchini e albanesi, ma negli ultimi anni l’incremento più marcato ha riguardato moldavi, pachistani e ucraini.
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