I risultati della ricerca di Fondazione Arca: «Nel 54% dei casi chi è in difficoltà racconta che gli amici di famiglia sono spariti». Il lavoro precario o sottopagato crea il nuovo stato di emergenza
Un flash mob davanti a Palazzo Marino con duecento persone sdraiate a terra e avvolte in una coperta. Lo ha organizzato per i trent’anni di attività «Fondazione Progetto Arca» con l’intenzione dichiarata di rendere visibile tutto quello che al contrario rimane nascosto: «C’è un’estrema povertà che non sta nelle strade ma che invece entra nelle case, abusive e non, e che si insinua nel lavoro, il lavoro precario, quello saltuario, il lavoro sottopagato… Stiamo parlando di una miseria che riguarda sempre più le famiglie con minori, condiziona l’accesso all’istruzione e le relazioni sociali e che ipoteca il nostro futuro» dice il presidente Alberto Sinigallia di «Progetto Arca».
La Fondazione ha commissionato a «Bva Doxa» una ricerca condotta su cinque città, compresa ovviamente Milano, e ha ripercorso la sua storia da quando, nel 1994, Sinigallia e la moglie Laura Nurzia abbandonarono i rispettivi lavori — agronomo lui, architetto lei — e si rimboccarono le maniche per rispondere ai bisogni sul territorio.
Era il 15 novembre sempre di quell’anno, il 1994, quando si occuparono della prima persona: oggi ai loro progetti milanesi lavorano quattrocento volontari, con 1.300 persone accolte nelle varie strutture. Numeri forti, robusti, che raccontano tanto: «Sette persone su dieci di quelle che abbiamo aiutato con la casa sono riuscite a cambiare vita. Siamo partiti offrendo panini e the caldo ma ora è l’housing sociale che è urgente rafforzare» spiega ancora Sinigallia, che in Italia gestisce ormai 150 alloggi.
Conferma l’assessore al Welfare Lamberto Bertolè: «La casa è il punto di partenza necessario per avviare il riscatto sociale e il lungo percorso verso l’autonomia». Il Comune e le associazioni del Terzo settore sono riusciti ad aggiudicarsi 21,4 milioni di fondi europei per far fronte alle esigenze dei prossimi quattro anni, ma non bastano. L’impoverimento non è solo quello materiale, non si esaurisce nell’assenza di mezzi e risorse per pagare la spesa o le bollette; è infatti anche culturale e sociale. «L’assistenza diventa allora occasione per costruire un rapporto umano che dura nel tempo».
Lo studio a Milano ha coinvolto un campione di 250 persone che fanno la spesa nei mercati solidali della fondazione. La povertà, risulta, «è soprattutto solitudine» spiega la ricercatrice Valeria Reda, anche se a Milano questa dimensione risulta meno accentuata che nel resto d’Italia. Il 60 per cento del campione milanese vive con i figli minori ma il 54 per cento racconta che gli amici di famiglia sono spariti e il 34 per cento confessa di evitare le occasioni di incontro per «l’imbarazzo di mostrarsi fragile».
Tutto questo isolamento, nel caso di ragazzi in casa, è un punto particolarmente critico. Il senso di frustrazione più forte riguarda proprio le rinunce che penalizzano le prospettive di crescita dei figli: il 37 per cento non riesce ad agganciarli a un doposcuola e ad evitare che vengano bocciati o finiscano in dispersione; il 38 per cento non li può iscrivere ad attività sportive, il 20 non riesce a comprare i libri di testo.
Si rinuncia a cure mediche come il dentista, a farsi tagliare i capelli, a passare almeno un giorno di vacanza l’anno via da casa: niente di tutto questo, per i poveri. Per chi perde tutto, ad un certo punto della vita è ancora più dura. Durissima. Eppure il sogno concreto di un possibile riscatto ancora resiste: a Milano il 41 per cento degli intervistati, contro il 33 per cento di media in Italia, spera di ritrovare la serenità «a breve».
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