Tra meno di un mese, il 13 dicembre, saranno passati dieci anni dalla scomparsa di Mario Dondero, uno dei grandi fotografi italiani che ha attraversato la seconda metà del Novecento e la prima di questo secolo con la Leica in mano e un sorriso, spesso ironico, sulla bocca. Un modo per ricordarlo, come ha scritto Silvia Veroli su il manifesto cinque mesi fa all’inizio della sottoscrizione, è tenere in vita la sua casa a Fermo, dove Mario aveva comprato una piccola villetta in mattoni che dà su un vicolo pieno di piante, gatti e rari passanti.
LA RACCOLTA FONDI per comprare la casa si doveva chiudere al 31 ottobre scorso ma l’Associazione Altidona Belvedere, che è anche la custode dell’archivio di Mario, ha deciso di prorogare la data a fine novembre. Manca all’appello ancora una somma importante e dunque sarà il caso di fare cassa in fretta. Il motivo non è solo celebrativo. L’idea è trasformare la casa di Dondero in un bene comune tangibile che da semplice magione diventi museo e, oltre che un luogo della memoria, un sito dove si racconti la storia della fotografia, di come uno scatto – per citare una frase celebre – «valga più di mille parole».
A Mario Dondero le parole non mancavano e, in gioventù, aveva scritto diversi reportage. Ma più in là con gli anni gli era venuta una dannata pigrizia e, soprattutto, non c’era verso di farlo dialogare con un computer. Nato con l’analogico, Mario non nascondeva la sua preferenza per la pellicola e, in molti casi, per il bianco e nero che – diceva per esempio – è «l’unico modo con cui si può fotografare la guerra».
RESTIO E POCO INCLINE alle mode, aveva un rifiuto viscerale per l’estetismo, malattia di cui soffre molta fotografia. Ed era anche poco incline a farsi considerare il «più grande fotografo italiano», come qualcuno aveva scritto: «È come se fossi già morto», diceva con un pelo di stizza. Tanto che, quando venne organizzata a Roma la sua ultima mostra, ci andò con un velo di tristezza: «E come se mi preparassero il funerale», confidava.
Se della morte si era infatti dovuto occupare per tutta la sua esistenza professionale, era la vita a interessarlo davvero. Spariva per tempi infiniti magari per andare a vedere una mostra, poi scoprivi che si era fermato in un’osteria a ritrarne gli avventori o una sfilza di camerieri e cameriere in posa per il suo obiettivo, o ancora che aveva fatto un salto alla redazione del manifesto, a cui era molto legato.
TIPO STRANO questo Dondero. Una vita piena di aneddoti, racconti, bizzarrie, viaggi, incontri. Anche qualche fissazione: il Genoa, il midollo nel risotto giallo (metà olio d’oliva, metà di semi), la guerra partigiana e quella di Spagna. Tanto da partire per le campagne iberiche a cercare le prove su una famosa fotografia di Capa – il miliziano – che i detrattori volevano costruita ad arte.
Di questo fotoreporter e della sua umanità si è detto molto. Ma c’è anche un aspetto poco noto di Mario che riguarda la sua statura intellettuale e una passione per la storia della fotografia che non era solo esperienza diretta ma anche lo studio attento di un fenomeno mediatico che si intersecava con le vicende delle prime agenzie, dei rotocalchi e dei periodici che sulla fotografia avevano puntato.
CI LAVORAMMO a partire da alcune puntate sul reportage fotografico che avevamo immaginato per Radio3Rai. O meglio, lui raccontava e al conduttore non restava altro da fare se non scandire con qualche virgola un fiume in piena. Se ne accorse l’editore Laterza che ci chiese di farne un libro. E così nacque Lo scatto umano, con un gioco di parole perfetto che l’editore si era inventato: una breve storia del fotogiornalismo che non era un manuale per amatori ma un percorso tra la storia, la geografia e soprattutto le emozioni che avevano attraversato l’editoria dalla fine del primo conflitto mondiale ai nostri giorni. Con una chiave di lettura molto originale. Un viaggio che si dipanava da Budapest a New York, passando per Londra e Parigi ma senza dimenticare Mosca, Praga, l’Africa, il Vietnam.
ALCUNI FRAMMENTI di quel lavoro furono pensati, discussi e messi a punto in Vicolo Zara, a Fermo, dove era piuttosto raro che Mario cucinasse ma che era un porto sicuro cui approdare dopo qualche viaggio e dove c’era sempre un letto per gli ospiti. Che questo luogo si possa trasformare in un museo attivo, in un bene comune vitale che appartiene a tutti, Mario certo non lo avrebbe mai immaginato. Ma siamo certi che gli piacerebbe, e molto. «Formidabile», direbbe. Poi sparirebbe con la sua Leica per l’ennesimo viaggio.
Obiettivo: 30mila euro entro il 30 novembre
La raccolta fondi per l’acquisizione della Casa di Mario da parte dell’associazione Altidona Belvedere ha come limite minimo il raggiungimento della cifra di 30mila euro più le spese per il passaggio di proprietà. Il conto è finalizzato esclusivamente all’operazione di acquisto e al pagamento delle spese riguardanti il passaggio. Le eventuali eccedenze saranno destinate esclusivamente ai primi interventi urgenti richiesti dall’immobile. Il termine ultimo per effettuare la donazione è il 30 novembre 2024.
Si può fare un bonifico con causale Erogazione liberale per progetto Casa Dondero a favore di Altidona Belvedere – Centro di documentazione e Cultura fotografica APS Via Bertacchini, 36 – 63824 Altidona (FM). IBAN: IT96T0615069640CC0130120838 codice SWIFT Carifermo SpA: CRFEIT3FXXX. Tutte le info qui.
Si può anche votare la Casa di Mario Dondero su “I luoghi del cuore del Fai”. Ciò consente di ottenere fondi per la conservazione e la ristrutturazione del sito.
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