di Francesco Scinetti
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La conclusione dei contratti nel settore dei trasporti sembra essere particolarmente difficile, con conseguenti frequenti scioperi. Una possibile causa di questa difficoltà è la scarsità di risorse finanziarie per le aziende del settore che limita la concessione di un adeguamento salariale più consistente. A sua volta questa scarsità riflette il mancato pieno adeguamento all’inflazione delle tariffe del trasporto pubblico. Tra il 2020 e il 2024, a fronte di un’inflazione cumulava del 18,5%, le tariffe del trasporto pubblico locale sono aumentate solo del 9,7%, mentre quelle ferroviarie regionali del 12,5%. La mancata revisione delle tariffe, pur evitando oneri per i cittadini, rischia così di compromettere la sostenibilità economica dei gestori del trasporto pubblico, a meno di ricadere sui lavoratori del settore.
Il rinnovo del contratto nazionale del trasporto pubblico locale che interessa oltre 100mila lavoratori, scaduto il 31 dicembre 2023, è una delle ragioni dei frequenti scioperi dell’ultimo periodo. I sindacati, tra cui CGIL, CISL, UIL e Cub Trasporti, chiedono, tra le altre cose, un aumento della dotazione annua del Fondo Nazionale dei Trasporti di 800 milioni per il 2025 (680 milioni in più rispetto ai 120 milioni previsti dalla manovra finanziaria per il 2025) per il rinnovo dei contratti per consentire un adeguamento delle retribuzioni al tasso di inflazione attuale e programmato.La difficoltà a concludere i contratti potrebbe derivare anche dalla mancata revisione delle tariffe dei biglietti per il trasporto pubblico urbano e ferroviario, con il conseguente limitato aumento delle risorse disponibili alle aziende del settore. Negli ultimi anni, i prezzi dei biglietti del trasporto pubblico locale e ferroviario in molte regioni e comuni italiani sono rimasti pressoché invariati nonostante l’aumento dei prezzi al consumo e all’ingrosso.
Tra il 2020 e il 2024, l‘aumento cumulato dei prezzi al consumo è stato del 18,5%. Nello stesso periodo, le tariffe dei mezzi pubblici locali per i 20 comuni più popolosi d’Italia sono cresciute in media solo del 9,7% , mentre quelle del trasporto ferroviario regionale hanno avuto un incremento solo di poco superiore (12,5%). Gli aumenti tariffari non sono stati omogenei sul territorio nazionale. Tra i 20 comuni più popolosi d’Italia, solo Genova, Padova e Brescia hanno adeguato le tariffe dei mezzi pubblici almeno in linea con l’inflazione. Nove città, tra cui Roma, Palermo e Bologna, hanno mantenuto inalterati i prezzi rispetto ai livelli pre-pandemia (Tav. 1).
Per quanto riguarda i prezzi dei biglietti dei treni regionali all’inflazione, il quadro è solo leggermente migliore rispetto al trasporto pubblico locale . Solo Umbria, Liguria e Marche hanno adeguato i prezzi dei biglietti in linea con l’aumento dei prezzi al consumo (Tav. 2).
Tre regioni (Valle d’Aosta, Lazio e Sardegna) hanno mantenuto invariate le tariffe dei biglietti durante il periodo considerato. Le altre regioni si collocano in una zona intermedia, con incrementi tariffari moderati ma insufficienti a compensare pienamente l’aumento dei costi. Il mancato pieno aumento delle tariffe all’inflazione potrebbe derivare dalla volontà dei decisori pubblici di non gravare eccessivamente sui cittadini. Tuttavia, tale politica finisce ora per riversarsi sui lavoratori del settore, o, nel caso le richieste sindacali fossero accettate, sui conti delle aziende di trasporti, in gran parte pubbliche.
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