I contributi che presenteremo a partire da oggi fino a giovedì costituiscono la rielaborazione di quelli esposti nel panel organizzato da Magistratura democratica nell’ambito del IV convegno annuale della Labour Law Community, tenutosi a Bari il 15 e 16 novembre 2024. Ringraziamo LLC per averci consentito di presentare a una platea così ampia e qualificata le nostre riflessioni. Riflessioni che sono state molto arricchite anche dai contributi di pensiero offertici da tutte e tutti coloro che avevano accettato il nostro invito e partecipato al seminario tenuto su questi stessi temi da MD il 17 giugno scorso. Grazie quindi a Silvia Balestro, Chiara Colosimo, Milena D’Oriano, Marco Guerini, Federico Martelloni, Marco Menicucci, Paolo Pascucci.
1. E’ un dato indiscutibile che la convenzione in appalto, anche di frazioni molto significative dei processi produttivi delle aziende, costituisca una modalità di organizzazione dell’impresa e del lavoro diffusissima in quasi tutti i settori. Talvolta lo strumento è utilizzato in maniera illecita, per nascondere un’interposizione fittizia di manodopera, ma in moltissimi altri casi la forma giuridica corrisponde alla realtà delle relazioni negoziali ed è quindi certamente in sé lecita.
Tuttavia non è seriamente contestabile che l’impiego dello strumento giuridico risponda solo in parte a finalità propriamente produttive (quali tipicamente l’attribuzione a terzi di frazioni del processo produttivo marginali o accessorie oppure connotate da una specifica complessità in termini di mezzi o di know-how dei lavoratori impiegati). In molti altri casi, invece, l’operazione economica di segmentazione, talvolta di disintegrazione del processo produttivo, con l’attribuzione in appalto delle varie fasi, è un fenomeno parassitario, privo cioè di ogni ragione diversa dalla determinazione di ridurre il costo del lavoro.
Era proprio per evitare questi fenomeni, che oggi la sociologia chiama di delocalizzazione di prossimità, che il legislatore della L. 1369/1960, come si legge nella relazione di accompagnamento, aveva previsto l’obbligo di parità di trattamento tra dipendenti del committente e dipendenti dell’appaltatore. Una previsione che dal 2003 non esiste più nell’impiego privato e la cui abrogazione ha avuto verosimilmente un ruolo non secondario nella diffusione nel tessuto produttivo del nostro paese degli appalti come strumento di contenimento dei costi e dei rischi derivanti dalla titolarità dei rapporti di lavoro.
Tuttavia, a distanza di oltre vent’anni da quella scelta normativa, è forse tempo di chiedersi, in primo luogo nell’ambito della comunità dei giuristi, quanto essa sia costata alle persone che lavorano (dipendenti, ma anche piccoli imprenditori, anelli ultimi di filiere sempre più lunghe), perché non ogni organizzazione di impresa è ugualmente e indistintamente libera ex art. 41 Cost. e non ogni salario è retribuzione costituzionalmente proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.
Il lavoro, di cui i contributi che seguono sono parte – solo provvisoria, in vista di uno studio che vuole essere più ampio e compiuto – prova a farsi questa domanda. Esso nasce dalla realtà della nostra esperienza di giudici del lavoro. Una realtà che ci restituisce l’evidenza di un numero significativo di infortuni e di infortuni gravi fra i lavoratori impiegati in catene di appalti e della diffusione di un contenzioso sostanzialmente omogeneo di denuncia, in questi rapporti di lavoro, di livelli retributivi non conformi alla retribuzione costituzionale ex art. 36 Cost., anche quando quei rapporti siano formalizzati con l’applicazione di contratti stipulati da organizzazioni di adeguata rappresentatività.
Certo l’attività giudiziaria conosce la patologia del rapporto negoziale e tuttavia la nostra esperienza quotidiana ci induce a ritenere che non si tratti solo di questo, di violazioni singole, di singoli inadempimenti. Infatti quando ci si trova di fronte a un contenzioso reiterato nel tempo e omogeneo intorno alle stesse questioni – per esempio quello molto frequente nei cambi appalto in cui l’appaltatore è soggetto inconsistente e incapiente e il committente, soggetto imprenditoriale forte e capiente, interviene, ogni due anni a scadenza appalto, quale obbligato in solido con transazioni tombali, sostenute da sindacati rappresentativi, che impongono la rinuncia a retribuzioni maturate e non pagate a fronte di una riassunzione con altro soggetto appaltatore per continuare a lavorare sempre, come da anni, nella stessa organizzazione aziendale o nei quali si deve discutere, al cambio appalto, della conservazione dei livelli retributivi venendo applicate in progressione condizioni peggiorative – allora è necessario domandarsi se si faccia davvero questione della patologia di un rapporto o dei rapporti con un datore di lavoro e non piuttosto di come funziona complessivamente la normativa in vigore nella sua interazione con il sistema produttivo.
Il nostro lavoro è partito da qui: dalla nostra esperienza giudiziaria e dalle recenti decisioni del Giudice di legittimità sulla retribuzione minima costituzionale (a partire da Cass. 27711 del 2 ottobre 2023, seguita dalle sentenze n. 27713 e n. 27769, sempre del 2.10.2023).
Abbiamo quindi compiuto un’analisi casistica sia delle sentenze dei giudici del lavoro che hanno dato origine a quell’indirizzo (ne parla il contributo di Emilio Sirianni) sia della giurisprudenza penale che ne ha fatto applicazione per individuare i confini della fattispecie del reato di sfruttamento lavorativo (tema trattato da Luca Milani).
Abbiamo poi inteso verificare se la nostra esperienza (catene di appalti – retribuzioni costituzionalmente non sufficienti – frequenti deficit di sicurezza) fosse solo aneddotica o se invece trovasse conferma in un razionale scientifico, negli studi delle scienze sociali sulle trasformazioni delle imprese. Per questo ci siamo avvalsi del lavoro che già Magistratura democratica aveva avviato con la rivista Sociologia del lavoro, sulle nuove forme di organizzazione di impresa e di conflitto, da cui era nato un seminario di studi, tenuto a Bologna nel luglio 2023 e abbiamo chiesto alla prof. Lisa Dorigatti, che aveva partecipato a quel seminario, di trattare dell’incidenza dei differenziali regolativi sulle scelte organizzative delle imprese in particolare su quelle dirette alla scomposizione dei processi produttivi.
2. La finalità di questa indagine – è giusto dichiararlo – non era e non è solo conoscitiva. Noi siamo un’associazione di magistrati, il nostro impegno e il nostro dovere è la tutela dei diritti delle persone. E siamo giudici del lavoro, quindi arbitri di un rapporto tra parti disuguali, un rapporto nel quale è la legge stessa ad attribuire rilievo giuridico a quella disuguaglianza sostanziale.
Il fine che abbiamo perseguito è stato ed è allora quello di verificare, nel rispetto rigoroso della nostra funzione e dei nostri limiti di interpreti, l’esistenza di possibili spazi ermeneutici per l’affermazione oggi, anche in esito all’ennesima modifica legislativa del testo dell’art. 29 del D.L.gs. 276/2003, di un principio di parità di trattamento negli appalti, alla luce dei principi, non solo di sufficienza, ma anche di proporzionalità della retribuzione.
La risposta che abbiamo cercato di delineare è affidata alle conclusioni dell’intervento di Emilio Sirianni. Essa muove dalla constatazione della profonda diversità tra appalti che riguardano settori marginali del processo produttivo della committente e invece appalti che stanno dentro quel ciclo produttivo rappresentandone delle frazioni ineliminabili. Questo dato dovrebbe essere considerato nell’interpretazione del nuovo testo dell’art. 29 del D.L.gs. 276/2003, perché negli appalti relativi al core business della committente, al fine di individuare l’attività oggetto dell’appalto, di cui dice il comma 1 bis dell’art. 29, non dovrebbe guardarsi alla sola frazione esternalizzata, bensì aversi riguardo all’attività della committente, nella quale il segmento appaltato è inserito, costituendone un passaggio essenziale. Perché solo quel riferimento consente di apprezzare effettivamente e concretamente le caratteristiche, in termini di autonomia, abilità e professionalità ma anche di rischio, delle mansioni richieste ai lavoratori dipendenti dell’appaltatore e quindi di individuare la retribuzione che sia per esse non solo sufficiente, ma anche proporzionata ex art. 36 Cost.
Questa lettura affidiamo al dibattito della comunità dei giuristi senza alcuna pretesa di verità, animati solo dall’impegno, che riteniamo nostro dovere, di tutelare i diritti fondamentali delle persone che lavorano: una giusta retribuzione, la sicurezza dei corpi e delle vite.
Intervento al IV convegno annuale della Labour Law Community, tenutosi a Bari il 15 e 16 novembre 2024
Anna Terzi, già magistrata
Elisabetta Tarquini, consigliera della Corte d’appello di Firenze
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