Le tasse sono da sempre un tasto delicato, non solo per chi le paga ma anche per chi ne parla – celebre quel «sono bellissime» di Tommaso Padoa Schioppa – e chi ci lavora, come dimostra la patina di stigma che rischia di accompagnare almeno per un po’ Ernesto Maria Ruffini dopo aver governato per anni, peraltro con eccellenti risultati, l’Agenzia delle Entrate. Ma proprio perché toccano corde profonde, oltre al portafogli, le tasse ci parlano di noi, di chi siamo e come ci poniamo rispetto alla società.
Complici alcuni numeri freschi freschi, ZeroVirgola si concede un’incursione nei bidoni della nostra immondizia, mai così pieni come in questi giorni di Natale. Partiamo da alcune buone notizie, contenute nel dossier Ispra diffuso giovedì: nel 2023, si dice, la raccolta differenziata ha già toccato il 66,6%, superando la soglia minima del 65% fissata dall’Unione europea per il 2030. Al Nord il dato è al 73,4%, ma anche il Centro (62,3%) e il Sud (58,9%) fanno progressi e riducono le distanze di circa quattro punti rispetto alle regioni settentrionali. In vetta tre regioni: Veneto, Emilia Romagna e Sardegna.
Fin qui tutto bene e tutto chiaro. Il quadro diventa più complesso e interessante se lo leggiamo anche attraverso le cifre elaborate da un focus dell’Ufficio parlamentare di bilancio curato da Larysa Minzyuk e Rosaria Vega Pansini, pubblicato l’altroieri e dedicato alla tassa di raccolta dei rifiuti. Una voce che per gli italiani vale 10 miliardi l’anno, che ne fanno il secondo tributo comunale per importo dopo l’Imu. Una somma che serve a coprire i costi per la gestione dei servizi, sempre intorno ai 10 miliardi: al 40% sono dovuti alla componente fissa (il 13% è legato alla pulizia stradale), il resto a raccolta, smaltimento e trattamento dei rifiuti. Qui molto dipende dalla presenza di impianti di trattamento dei rifiuti, 656 in tutta Italia secondo l’Ispra, di cui la metà solo destinati al trattamento dell’organico: di solito non sono benvenuti dai cittadini, ma chi se li trova in zona potrà contare su una tassa più bassa perché gli oneri di trasporto saranno più contenuti. Così si spiegano
in partenza le differenze in bolletta da comune a comune, e per macroarea: per chi abita in un centro con popolazione compresa tra i 5mila e i 10mila abitanti, nel 2023 la Tari pro capite media è stata pari a 160 euro al Nord, a 215 al Centro e a 210 al Sud. Importi un po’ più elevati ma analoghi rapporti se guardiamo ai capoluoghi con oltre 100mila residenti.
Differenze facili da capire, ma che di solito ne generano altre, in una specie di circolo vizioso. Sì, perché dalla ricerca Upb emerge chiaramente che quanto più la tariffa è alta tanto più si registrano ritardi nelle riscossione, che
a loro volta spingeranno i comuni a ricercare le risorse altrove oppure ad alzare le tariffe beffando doppiamente chi paga regolarmente. Gli incassi complessivi nel triennio 2021-23 si attestano mediamente all’85% degli importi accertati, con una marcata differenza tra Nord (94%), Centro (86%) e Sud (77%). La ricerca segnala poi una solo apparente ovvietà:
«L’adempimento spontaneo aumenta con la qualità del servizio, la ricchezza dei contribuenti e la realizzazione di investimenti per migliorare la gestione amministrativa del tributo». Un ingranaggio fondamentale, in cui il circolo vizioso può diventare virtuoso o viceversa. Come uscirne? Il focus suggerisce tre mosse: realizzare nuovi impianti di gestione (sfruttando anche i fondi Pnrr), per ridurre i prelievi da altre voci di bilancio e aumentare quindi la percezione della Tari come una “benefit tax”, cioè un contributo che impatta direttamente sulla qualità di vita del contribuente. In realtà vale per tutta la materia fiscale, ma chissà che siano proprio i rifiuti a farci aprire gli occhi.
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