vita e opere del poeta dell’infinito e il mistero della sua morte

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Il 7 e l’8 gennaio 2025 è andata in onda su Rai 1 una nuova miniserie televisiva intitolata “Leopardi – Il poeta dell’infinito“, dedicata alla vita del celebre poeta Giacomo Leopardi. La miniserie, diretta da Sergio Rubini, offre un ritratto inedito e storicamente coerente del grande scrittore recanatese, evidenziandone non solo il genio poetico, ma anche la profondità, le passioni, le ribellioni e gli ideali politici che hanno caratterizzato la sua breve – ma intensa – vita, sempre nel segno del forte desiderio di emancipazione che l’ha contraddistinta. Il grande poeta è stato spesso percepito come un pessimista, per i temi di sofferenza e infelicità che regnano incontrastati nelle sue opere. Ma non c’era solo questo: le sue opere esploravano profondamente la condizione umana, cercando di comprendere le cause dell’infelicità e proponendo solidarietà gli uni gli altri di fronte alle avversità.

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BIOGRAFIA DI GIACOMO LEOPARDI

Primi anni di vita e opere di Leopardi, bambino prodigio

Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro Leopardi (sì, aveva ben sei nomi!), primo di dieci figli, nacque il 29 giugno 1798 a Recanati da una delle più nobili famiglie del paese. I genitori, che erano cugini, erano molto attenti all’educazione dei figli, e questo dettaglio fu alla base del percorso letterario di Giacomo. Sua madre Adelaide Antici era una donna molto religiosa e dal carattere “duro”, talvolta quasi “anaffettivo”, come si rievoca dalle memorie del poeta, che per tutta l’infanzia soffrì il non aver ricevuto abbastanza amore e affetto da lei. A seguito di speculazioni azzardate da parte del padre, Adelaide si incaricò di dirigere il patrimonio familiare per evitare di finire nel baratro a causa dei debiti, e ciò comportò una significativa economia domestica di cui soffrirono tutti i figli, a cui però non mancarono mai le risorse per studiare.

La primissima educazione arrivò a Leopardi grazie a un gesuita e a un abate, che gli insegnarono il latino, la teologia, i fondamenti di filosofia e di scienza, ma soprattutto improntarono un modello di studio che gli fu utile per tutta la vita. A Giacomo, però, questo non bastava, e iniziò a studiare alcuni dei circa 20.000 libri della biblioteca del padre.

Tra il 1809 e il 1812 iniziò a comporre il corpo di quelle che verranno definite le sue Opere puerili, una raccolta di testi di varia natura (poesie, traduzioni e saggi) che riflettono l’erudizione precoce e la formazione culturale di Giacomo. Nonostante la loro natura giovanile, mostrano già l’eccezionale talento letterario e l’approfondita conoscenza dei classici da parte dell’autore, senza disdegnare la sua passione per le burle in versi (qui dirette ai suoi fratelli).

Da quel periodo fino al 1816 Leopardi si diede a quello che definì senza mezzi termini «uno studio matto e disperatissimo»: imparò perfettamente il latino, il greco antico, qualche accenno di sanscrito, un po’ di ebraico, francese, inglese, spagnolo e tedesco, visto che il lavoro di traduzione lo intrigava particolarmente.

Nel 1813, a 15 anni, scrisse Storia dell’astronomia, basandosi sull’omonima opera di Bailly, in cui si ripercorre l’evoluzione della scienza astronomica dalle sue origini fino al 1811, compresi aggiornamenti assenti nell’opera di Bailly come la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e la cometa del 1811. L’apprendimento del francese gli fu molto utile per comporre questo scritto, perché Leopardi lesse fittamente Abrégé d’Astronomie di Jerome Lalande e il Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri Paulian che trovò negli scaffali della tanto amata libreria paterna.

Nello stesso periodo il ragazzo iniziò anche a lavorare a delle traduzioni di latino e greco (sia spontanee che commissionate), e quattro anni dopo esordì come poeta pubblicando su Lo Spettatore Italiano il suo Inno a Nettuno e due odi greche.

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La pubertà e la malattia

Giacomo Leopardi (1798–1837) nel celebre ritratto di Stanislao Ferrazzi (1861–1937)

Nel 1815 Leopardi, che era sempre stato di salute cagionevole, iniziò a stare male seriamente: gli anni passati chino sui libri e la genetica iniziarono a rendergli il conto. I primi acciacchi furono di natura reumatica, conditi a un’incipiente scoliosi e a problematiche psicologiche date da lunghi periodi di studio in isolamento. Di ciò ne soffrirono poco a poco anche gli occhi, che si fecero sempre più estranei alla vista.

La malattia vera e propria lo colpì con problemi ai polmoni e forti febbri che gli causarono una forte deviazione della spina dorsale – da cui nacque la sua famosa “doppia gobba” – che portò con sé una serie di problematiche che lo afflissero tutta la vita (tosse, ridotta capacità polmonare e fiato corto, stanchezza eccessiva, problemi circolatori e intestinali). Neanche le gambe scamparono ai dolori, soffrendo di tremori e parestesie nei momenti più freddi. Insomma, non c’era una parte del corpo del giovane che ne fosse uscita indenne, ma quello che soffrì di più fu sicuramente il suo spirito, che non voleva accettare un corpo piegato dalla malattia. A nemmeno 18 anni credeva che sarebbe sicuramente morto, se non per i dolori quanto meno per il dispiacere di veder così ridotti i suoi studi (aveva infatti dovuto ridurre di molto i suoi studi a causa della vista affaticata).

Di tutti questi problemi di salute parlò in una cantica, L’appressamento della morte, e in seguito anche nelle Ricordanze, definendo la malattia come un «cieco malor» che lo condusse più volte verso la strada dei pensieri suicidi.

Secondo Pietro Citati (medico che lo ebbe in cura a Recanati) e altri dottori, Leopardi avrebbe sofferto o della malattia di Pott (una tubercolosi ossea, anche nota come “spondilite tubercolare” di cui soffrì anche un’altra nota figura del panorama politico e letterario italiano, Antonio Gramsci) oppure di spondilite anchilosante giovanile, una sindrome reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, e che comporta anche altri disturbi infiammatori agli occhi e ai nervi.

Indubbio è che questa terribile situazione lo portò a una serie di crisi depressive che non lo avrebbero più abbandonato, e influenzò il suo pessimismo filosofico che poi lo portò a indagare sulle radici della sofferenza umana e del significato della vita.

Le opere di Leopardi adulto e l’Infinito

Nel 1817 Leopardi aveva 19 anni, e si apprestava a iniziare la compilazione dello Zibaldone, che fino al 1832 avrebbe visto annotate le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere.

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Allora, il giovane Leopardi desiderava solamente uscire dalle quattro mura in qui era stato confinato (o in cui, a detta di altri punti di vista, si era auto-confinato), e così nel 1819 progettò la fuga, procurandosi un passaporto per il Regno Lombardo-Veneto. Tuttavia ben presto venne scoperto, e il piano fallì. Il padre gli disse infatti che se fosse andato via di sua spontanea volontà non avrebbe ricevuto un soldo per mantenersi, e così Leopardi rimase, sebbene afflitto, nella dimora dei genitori.

Il pessimismo leopardiano che conosciamo attecchì in quel momento: il giovane autore iniziò a riflettere sulla vanità delle speranze e l’ineluttabilità del dolore, e in quel moto di sentimenti iniziò a comporre i canti che sarebbero stati pubblicati sotto il nome di Idilli e a scrivere la sua opera più nota, L’Infinito.

Proprio nel periodo in cui redigeva questo suo importantissimo scritto, qualcosa era cambiato: la sua posizione verso il Romanticismo. Il giovane infatti si era sempre opposto a questa corrente, difendendo la tradizione classica. In quel frangente di gioventù, però, integrò elementi romantici nella sua poetica, come l’esplorazione del rapporto tra finito e infinito e l’attenzione all’interiorità e all’immaginazione. Questo avvicinamento è evidente soprattutto in opere come L’infinito, dove temi romantici si fondono con la sua visione personale. In quest’opera Leopardi esprime un’idea di un’immensità che va oltre i limiti umani, suscitando un profondo sentimento di contemplazione e fusione con l’universo. In queste pagine il poeta descrive un colle solitario che, oscurando l’orizzonte, permette all’immaginazione di spaziare senza confini.

Manoscritto originale di L’infinito di Giacomo Leopardi, conservato a Recanati. Credit: Filippo Bonaventura

Nel 1822, però, arrivò un barlume di libertà: i genitori gli avevano infatti dato il permesso di andare a Roma, ospitato dallo zio materno. La città però stupì in negativo il giovane Leopardi, che la descrisse come corrotta e squallida. Tornò pochi mesi dopo a casa. Nel 1825 si spostò a Milano con l’incarico di dirigere l’edizione completa delle opere di Cicerone e altre edizioni di classici latini e italiani. L’aria della metropoli però lo faceva stare troppo male, e così si trasferì prima a Bologna, poi a Firenze e Pisa, per poi tornare a casa nell’estate del 1828 a causa dei problemi di salute, dove rimase fino al 1830.

Proprio nel 1828 aveva composto la celebre poesia “A Silvia” (inclusa nei Canti), ode malinconica probabilmente dedicata a Teresa Fattorini, la giovane figlia del cocchiere di casa Leopardi a Recanati. Era una ragazza semplice e di umili origini che morì intorno ai vent’anni (si pensa per tubercolosi), e che divenne per Leopardi il simbolo della fragilità della vita e della fine delle speranze giovanili, temi centrali nella poesia. La figura di Silvia quindi è emblematica, perché rappresenta la caducità dell’esistenza e l’impossibilità di realizzare i propri sogni.

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Gli ultimi anni, la morte e la sepoltura a Napoli

Quando Leopardi era a Firenze, strinse una solida amicizia (e forse anche più) con Antonio Ranieri, napoletano esule e massone, futuro senatore del Regno d’Italia, che sfociò in una fittissima corrispondenza nei tempi di lontananza.

Sul finire dell’estate del 1833 Leopardi ricevette una considerevole somma si soldi dai genitori, e partì immediatamente verso Napoli con Ranieri, nella speranza che quella calda città giovasse alla sua salute.

Intanto le Operette morali (una raccolta di 24 componimenti in prosa sull’esistenza umana, l’infelicità e il rapporto dell’uomo con la natura terminata nel 1832) subirono la censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguì la messa all’Indice dei libri proibiti dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialistiche e contrarie alla dottrina della Chiesa esposte in alcuni “dialoghi”. In quelle pagine infatti Leopardi metteva in discussione l’antropocentrismo e criticava l’ottimismo del progresso umano.

In quegli anni il poeta si dedicò alla scrittura di satire e liriche, ma la salute non migliorò, e il 14 giugno 1837 morì (a neanche 39 anni compiuti) per idropisia polmonare, ossia l’accumulo di liquidi nel torace e nei polmoni.

A quell’epoca la peste aveva invaso tutta la città, e l’amico Ranieri temeva che il corpo dell’amico sarebbe stato gettato in una fossa comune a causa delle rigide norme sanitarie in vigore. Così si affrettò a contattare un fidato amico chirurgo che potesse dichiarare tramite autopsia che Leopardi non fosse morto a causa della peste. Dopo l’accertamento, le spoglie di Leopardi vennero inumate nella cripta e poi nell’atrio della chiesa di San Vitale (oggi Chiesa del Buon Pastore), a Fuorigrotta.

Tuttavia, durante una ricognizione ufficiale delle spoglie nel 1900, emersero dubbi sull’autenticità dei resti attribuiti a Leopardi. In particolare, si notò l’assenza del cranio nella tomba, alimentando sospetti sulla reale identità delle ossa. Alcuni ipotizzarono che Ranieri avesse mentito sulla sepoltura e che avesse nascosto le ossa chissà dove (inscenando quindi un funerale a bara vuota con la complicità del parroco), mentre altri suggerirono che i resti potessero essere stati confusi o dispersi durante lavori di restauro nella chiesa. Nonostante ciò, il professore che studiò i resti ossei trovati nella bara osservò che il rachide e lo sterno erano entrambi deviati, e che potevano appartenere al poeta.

Nel 1939, su desiderio di Mussolini, le spoglie di Leopardi furono trasferite al Parco Vergiliano a Piedigrotta, dove riposano tuttora.

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