giovani e suicidio, numeri e sfide di un fenomeno crescente

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I numeri non mentono, e quelli relativi al suicidio tra i giovani sono inquietanti.

Nel mondo, ogni 40 secondi una persona si toglie la vita. L’OMS stima più di 700mila suicidi all’anno in tutto il globo, per impiccagione, avvelenamento, precipitazione da luoghi elevati, uso di armi da fuoco, annegamento e overdose.

E i dati italiani non sono – purtroppo – molto distanti, soprattutto quelli che riguardano ragazzi e ragazze. I dati più recenti hanno registrato 3.748 suicidi. Nonostante il tasso standardizzato di 5,6 per 100mila abitanti sia inferiore alla media europea, il suicidio rimane una delle principali cause di morte tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Negli ultimi dieci anni, l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma ha osservato una crescita esponenziale degli accessi al pronto soccorso per comportamenti suicidari da parte di giovanissimi, con un aumento del 75% nei due anni di pandemia (rispetto al biennio precedente).

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Inoltre, Telefono Amico Italia ha gestito circa 6mila richieste d’aiuto nel 2022 da parte di persone con pensieri suicidari o preoccupate per un proprio caro, oltre 7mila nel 2023. Un dato che illumina una crisi spesso nascosta, ma profonda, tra le generazioni più giovani, colpite da pressioni sociali, isolamento e aspettative irrealistiche. L’autolesionismo, invece, si manifesta sempre più come un modo per gestire dolore e rabbia, amplificato dalle pericolose challenge sui social media.

Le cause? Un intreccio di fattori personali, sociali e culturali. La cosiddetta “società delle performance” spinge i ragazzi a rincorrere standard impossibili, mentre la pandemia ha aggiunto un ulteriore strato di isolamento e vulnerabilità. Per molti, il fallimento non è un’opportunità per imparare, ma una condanna. A questo si aggiunge l’impatto devastante della cultura digitale: social network che da spazi di condivisione si trasformano in vetrine di confronto e alienazione.

Ma c’è una speranza. I giovani iniziano a parlare di salute mentale senza paura, e il calo del 6,5% nelle richieste di aiuto nel primo semestre del 2024 ne è un segnale. Tuttavia, il cammino è ancora lungo. Bisogna “educare, ascoltare e creare una rete di supporto concreta”, come ha spiegato il dottor Angelo Capasso, Psicologo Psicoterapeuta a orientamento sistemico-relazionale e Manager Clinico di Unobravo, in questa intervista esclusiva a One Health. Solo così possiamo trasformare il grido silenzioso di una generazione in un messaggio di resilienza e rinascita.

Oltre 7mila nel 2023 le richieste di aiuto per gestire un pensiero di suicidio (proprio o di un caro), addirittura cresciute del 24% rispetto all’anno precedente: sono i dati di Telefono Amico Italia, che per la maggior parte si riferiscono ai ragazzi fra i 14 e i 35 anni. Che cosa sta succedendo?

Angelo Capasso, Psicologo Psicoterapeuta a orientamento sistemico-relazionale e Manager Clinico di Unobravo

È un dato molto allarmante, che fa pensare all’impatto sulla psiche che le pressioni sociali e le aspettative, generate da quella che i filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici chiamano “società delle performance”, possono creare nei giovani, quando questi ultimi non riescono a conformarsi a determinati modelli sociali. La frustrazione, il fallimento, il senso di inadeguatezza sono vissuti emotivi con i quali ogni individuo nel suo percorso di crescita deve fare necessariamente i conti; purtroppo in uno stato di fragilità e di mancanza di caregiver adeguatamente supportivi, tali vissuti possono diventare in alcuni casi insostenibili. È anche possibile che più giovani siano oggi disposti a chiedere aiuto e a parlare apertamente della loro ideazione suicidaria, per cui l’aumento di telefonate potrebbe anche essere indicatore di maggiore attenzione alla dimensione della salute mentale, rispetto al secolo scorso non più percepita come un tabù.

Fortunatamente, il 2024 ha lasciato intravedere un leggero segnale positivo: nel primo semestre le richieste d’aiuto sono state 3.500, registrando un calo del 6,5% rispetto allo stesso periodo del 2023. Come spiega questa – se pur lieve – inversione di tendenza?

Negli ultimi anni, il benessere psicologico è diventato un tema preponderante nelle narrazioni sociali, così come il valore della richiesta di sostegno psicologico. Ci sono state anche iniziative politiche e istituzionali tese ad agevolare l’accesso a percorsi psicologici di cura, così come sono aumentati nel privato servizi di cura online e in presenza a prezzi calmierati. Mi sembra azzardato parlare di un’inversione di tendenza senza maggiori dati a supporto, ma mi piace coltivare la speranza che stia avendo effetti positivi attenzionare la sofferenza e “normalizzarla” come un’esperienza raccontabile di cui ci bisogna prendersi cura senza vergogna e prima che sia troppo tardi. 

Una diminuzione, è vero, ma con numeri sul suicidio ancora lontani dagli anni precedenti al 2020 (quando Telefono Amico riceveva mille chiamate l’anno di questo tipo): il Covid e la pandemia hanno davvero inciso così tanto? E perché? 

L’impatto della pandemia da Covid-19 è una correlazione che non si può escludere come ipotesi quando si riflette sui fenomeni psicologici della contemporaneità, stando attenti a non farlo diventare la spiegazione lineare di ogni situazione, perché si rischia di banalizzarne la complessità. Sicuramente, situazioni estreme come la quarantena e le restrizioni che si sono susseguite in quegli anni sono state uno strappo violento dalla routine che può aver avuto un’incidenza sulle tappe evolutive di bambini, adolescenti e giovani adulti, che ne sono usciti più sguarniti perché più vulnerabili, ma è importante tenere conto anche dei fattori di rischio preesistenti che la pandemia può aver esasperato.

Quali possono essere le cause scatenanti di un pensiero di suicidio nelle giovani generazioni? E che cosa fare per aiutarli?

Il suicidio è l’espressione massima di pulsioni autodistruttive che prevalgono su quelle autoconservative, una sorta di scelta paradossale dove l’unica strategia contemplabile per affermare sé stessi, in un contesto vissuto come causa di sofferenza, diventa quella di porre fine a sé stessi: si rifugge dal dolore arrecando a sé stessi la fine ogni di ogni dolore, ma anche di ogni altra esperienza.  Dal momento che il comportamento individuale non può essere compreso senza considerare il contesto più ampio di relazioni e di interazioni in cui una persona è immersa, se allarghiamo il focus dall’individuo a tutto ciò che lo circonda, possiamo pensare al suicidio, così come ad altri comportamenti estremi, non come un evento isolato ma parte di un sistema relazionale e culturale che influenza l’individuo e sintomo collettivo di un disagio che finalmente stiamo iniziando ad ascoltare. Oltre ad attenzionare i fattori di rischio (come isolamento, ansia, disturbi dell’umore, trascuratezza familiare, violenza domestica, stigma e discriminazione), è importante rinforzare i fattori protettivi, come una rete di supporto forte e amorevole e l’accesso a trattamenti psicologici adeguati. 

Purtroppo, la cronaca ultimamente riporta anche molti casi di autolesionismo, sempre fra ragazze e ragazzi: molti, poi, sono il risultato di pericolose challenge su TikTok, come la “cicatrice francese”, la “Blue Whale”, la “Blackout challenge”, la “Tide Pods Challenge”, la “Planking Challenge”, la “Borg”, la “Hot Chip Challenge” e l’ultimissima “Chroming” (solo per citare le più tristemente famose). Perché accade questo? E cosa dovremmo fare per porre fine a queste sfide?

Purtroppo è sempre esistito nei giovani una fascinazione per i gesti estremi che diventa emulazione, se pensiamo, ad esempio, che in età romantica I dolori del Giovane Werther o Le ultime lettere di Jacopo Ortis ispirarono epigoni dei protagonisti, anche se è possibile che Goethe e Foscolo avessero colto nei loro romanzi il riflesso di una corrente autodistruttiva dell’epoca che vedeva nel suicido una forma di ribellione contro la società.

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Oggi questa challenge rappresenta sicuramente un aspetto preoccupante della cultura digitale contemporanea, che trova terreno fertile in bisogni che hanno sempre caratterizzato la pre-adolescenza e l’adolescenza: ricerca di appartenenza, accettazione sociale, influenza dei pari. Questo tipo di sfida ricolloca il sintomo dell’autolesionismo, che è una modalità che una persona adotta per gestire e controllare emozioni forti come dolore, frustrazione, rabbia e tristezza su una vetrina digitale che rinforza il comportamento. Ci vorrebbe maggiore educazione all’utilizzo sano dei social network, sia per i figli che per i genitori, e allo stesso tempo una regolamentazione dei social media tutelante per i fruitori più vulnerabili. 


  • Irene Perfetti



    Giornalista pubblicista e redattrice per One Health


  • Angelo Capasso



    Psicologo Psicoterapeuta a orientamento sistemico-relazionale e Manager Clinico di Unobravo


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