così l’industria Usa delle armi vince

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La sterile polemica politica per l’interessamento del governo italiano al sistema satellitare Starlink, del magnate sudafricano Elon Musk, apre a profonde riflessioni sulla sicurezza dei sistemi di comunicazione ma soprattutto sulla maggiore attrattiva dei sistemi d’arma – e non solo – Made in USA rispetto a quelli europei.

Abbiamo già avuto modo di riflettere più volte in questi anni su come la spesa per la Difesa europea finisca, per la maggior parte, nelle tasche statunitensi. Già prima del recente “rapporto Draghi” in cui si affermava che tra la metà del 2022 e la metà del 2023, il 63% di tutti gli ordini di sistemi per la Difesa dell’UE era stato effettuato con aziende statunitensi e un ulteriore 15% con altri fornitori extra-UE, a novembre 2022 sottolineavamo come i Paesi europei facevano segnare circa 33 miliardi di dollari di “offerte di armamenti”, come viene chiamata la fase iniziale dei negoziati per la vendita di armi, di cui 21 miliardi calcolati da febbraio 2022, nei documenti ufficiali del Dipartimento di Stato statunitense. La stima, vale la pena ribadirlo ancora una volta, era comunque al ribasso, in quanto in quest’ultima cifra non sono conteggiate le vendite commerciali dirette che sono più difficili da tracciare.

Ma perché armi e sistemi per la Difesa di fabbricazione statunitense hanno così tanto successo sul mercato internazionale? Sicuramente una risposta la si può trovare nel livello tecnologico dei prodotti offerti, che è più avanzato rispetto ad altri concorrenti “non occidentali”. Ma il fattore che porta le nazioni europee (troppo spesso) a optare per l’acquisto di materiale Made in USA è sicuramente la più rapida disponibilità rispetto a quanto fabbricato localmente. In gergo tecnico, questa caratteristica viene definita “dallo scaffale” o “off the shelf” ovvero la possibilità di acquistare qualcosa in tempi brevi, proprio come se ci trovassimo tra gli scaffali di un magazzino.

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Non è un mistero che sistemi da difesa aerea come i Patriot PAC-3, oppure mezzi come MBT (Main Battle Tank) tipo Abrams siano acquistabili in tempi significativamente minori rispetto agli equivalenti europei, i quali, per quanto riguarda le caratteristiche tecniche, comunque non hanno nulla da invidiare ai loro concorrenti statunitensi.

Spesso oltre alla rapida disponibilità, i sistemi d’arma di oltre Atlantico hanno anche un prezzo più conveniente oppure sono forzatamente gli unici disponibili sul mercato: pensiamo ad esempio al noto sistema MLRS (Multiple Launch Rocket System) moderno come l’HIMARS: in Europa non esiste nulla di equivalente, pertanto risulta quasi obbligatorio per quelle nazioni che vogliano dotarsi di capacità simili guardare agli Stati Uniti.

Ancora un caso a sé stante ma che ben chiarisce come l’Europa in alcuni settori sia rimasta indietro è rappresentato dai caccia di quinta generazione: oggi, a meno di non voler utopicamente acquistare in Russia o in Cina, l’F-35 è l’unico velivolo presente sul mercato, e anche al netto della partecipazione di Paesi europei alla sua fabbricazione (tra cui giova ricordare l’Italia), la strada per ottenere capacità di quel tipo è praticamente obbligata. Una lezione che però, va detto, abbiamo appreso, e infatti il Vecchio Continente sta esprimendo capacità industriali aeronautiche di sesta generazione con due programmi nati in Europa: lo SCAF franco-tedesco-spagnolo e il GCAP italo-anglo-nipponico.

Avere disponibilità “off the shelf” significa essere molto più competitivi sul mercato, soprattutto quando le incombenze date da un sistema internazionale sempre più deteriorato impongono una revisione di politiche (e dottrine) della Difesa.

Le industrie degli armamenti statunitensi, rispetto a quelle europee, hanno anche un vantaggio oltre a poter disporre di fondi maggiori: una burocrazia più elastica per quanto riguarda gli ordini di produzione. Anche questa è stata una lezione imparata “sul campo”: la linea di produzione dell’F-22 “Raptor”, caccia intercettore da superiorità aerea offensiva, era stata troppo frettolosamente chiusa in un periodo storico di relativa pace, e oggi, negli USA, c’è addirittura chi pensa sia più conveniente riattivarla invece di perseguire la sesta generazione aeronautica col NGAD, date le difficoltà di reperimento dei fondi e, non da ultime, quelle tecnologiche.

Non si tratta di questioni di “lana caprina”. Se negli Stati Uniti il paradigma che regola i rapporti tra Stato e industria della Difesa è cambiato con lo scoppio del conflitto in Ucraina (e il sostegno militare USA a Kiev), da queste parti ancora si fatica a trovare il modo di snellire un apparato burocratico farraginoso, ancora legato a dinamiche proprie di un mondo in pace. Le industrie europee della Difesa, prima di avviare produzioni di massa, richiedono contratti temporalmente adeguati per mettersi al riparo da possibili ordini non pagati, mentre gli Stati richiedono quella rapidità di consegna che le industrie, per mancanza di fondi, non riescono a garantire.

Il problema di fondo è la mancanza di un coordinamento sovrastatale, e l’UE, da questo punto di vista, ha molte colpe: perché, ancora prima di esprimere la nuova bussola strategica, non si è pensato a snellire l’apparato burocratico e a stabilire dei centri di eccellenza multinazionali per i diversi settori della produzione della Difesa? Perché non si riesce a legiferare in modo da stabilire dei requisiti industriali minimi perché un progetto venga sovvenzionato senza sovrapporsi a un altro similare? Soprattutto: perché non si investe di più nel settore Difesa dal bilancio UE? Le domande potrebbero risultare retoriche.

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Tornando alla questione relativa alla sicurezza, il caso (che caso non è) Starlink è emblematico: quella di SpaceX è l’unica costellazione di satelliti in orbita bassa in grado di soddisfare le richieste nazionali avendo avuto anche la prova provata del campo di battaglia (in Ucraina). È saggio però affidare le comunicazioni strategiche della Difesa a un ente privato straniero? Anche in questo caso la domanda è retorica. Certamente la rete di satelliti Starlink non è nata da un giorno all’altro, e, come già detto, davanti a un’impellenza non si può attendere anni, o più probabilmente lustri, per avere qualcosa di equivalente a livello europeo, ma se mai si inizia mai si otterranno risultati.

L’Europa ha le competenze per farlo, anche l’Italia, da gigante aerospaziale europeo qual è, le ha. Quello che però manca è la visione strategica, o se vogliamo “di lungo termine”, e se la politica pecca di miopia in questo senso, sarebbe il caso che l’industria cominci a essere più dinamica da questo punto di vista, investendo autonomamente in ricerca per proporre nuovi sistemi: in una parola sperimentare, elaborare prototipi e dimostratori tecnologici.

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