Foodification, il cibo che inghiotte le città della Sicilia

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Si chiama foodification ed è la tendenza dei luoghi di ristorazione a occupare gli spazi deputati un tempo al lavoro.

Lì dove un tempo c’era la bottega della signora Santina, oggi c’è un’attività commerciale di un marchio in franchising – al momento di tendenza – che vende patatine di ogni forma e provenienza. Al posto di quella storica concessionaria dalla quale provenivano la maggior parte delle auto dei nostri genitori, oggi sorge un ipermercato. Le vie un tempo abitate dai negozi di artigianato locale, che proponevano prodotti made in Italy, sono diventate l’ambientazione di una sfavillante boulevard nella quale prevalgono cocktail bar, pub e pizzerie di massa pronte ad aprire e chiudere nel breve volgere di una stagione, costo degli affitti permettendo. E poi a replicarsi. Come i ristoranti giapponesi di Catania, che anno dopo anno continuano a moltiplicarsi sfidandosi per chi tra loro mostri le luminarie più scintillanti in periodo natalizio. Si chiama foodification ed è la tendenza dei luoghi di ristorazione a occupare gli spazi deputati un tempo al lavoro. Parafrasando: il cibo che inghiotte città e spazi comuni, privatizzandoli e commercializzandoli. Un fenomeno ormai sempre più diffuso in città come Milano, Roma, Venezia, Firenze e Napoli. E che sempre più sta contagiando anche la Sicilia.

La foodification: quando il cibo diventa il protagonista della trasformazione urbana

Negli ultimi anni, il fenomeno della foodification si è imposto come uno dei più evidenti segnali di trasformazione sociale ed economica nelle città italiane. Il termine si riferisce alla tendenza dei luoghi di ristorazione a sostituirsi agli spazi un tempo destinati ad attività produttive, artigianali o commerciali tradizionali. Questa metamorfosi è alquanto visibile in città prese di mira del turismo sregolato come Milano, Roma, Venezia, Firenze e Napoli, dove ristoranti, bar, bistrot e pasticcerie hanno progressivamente colonizzato quartieri storici e aree centrali. Aspetti che si intersecano tra loro con il tema della gentrification – spiegato in modo approfondito in “Gentrification – Tutte le città come Disneyland”, Giovanni Semi, Ed. Il Mulino (2015) – del quale parleremo in un altro apposito dossier del Quotidiano di Sicilia. Ma quali sono le cause e le conseguenze di questo fenomeno? E che ruolo gioca la Sicilia in questo contesto?

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Un fenomeno in espansione: l’Italia della foodification

Il fenomeno della foodification non è esclusivamente italiano, ma nel nostro Paese ha assunto connotazioni uniche, con una accezione che sposa i flussi e le mete del turismo. Negli ultimi dieci anni, i dati Istat e i rapporti di Confcommercio mostrano una crescita superiore al 25% delle attività di ristorazione, a fronte di una contrazione del 15% delle attività manifatturiere e artigianali nei centri urbani.
In Italia, il numero di queste attività varia in base alle fonti, ma secondo Movimprese, un indice basato sui dati delle Camere di Commercio, le stime indicano la presenza di circa 392.535 ristoranti registrati. Il numero di quelli attivi è invece stimato in poco più di 340.000: circa il 15% delle attività economiche totali. Milano è emblematica in questo senso: i Navigli, un tempo area popolare e operativa, sono oggi il fulcro della movida e della ristorazione di tendenza. Qui, negli ultimi cinque anni, sono stati inaugurati oltre 200 nuovi locali. Tra i casi più interessanti legati alla foodification troviamo proprio il quartiere Isola del capoluogo lombardo, che da area operaia è diventata un centro di ristorazione gourmet. Roma, con il Tridente e Trastevere, ha visto un aumento del 30% delle attività legate al food negli ultimi dieci anni, trasformando queste zone in attrazioni per turisti e residenti. Firenze, con il Mercato di San Lorenzo, è passata da essere un luogo dedicato alla spesa quotidiana dei residenti a un polo gastronomico per turisti. Anche Napoli ha visto la trasformazione del quartiere Chiaia, che ha accolto numerosi locali di lusso, modificando profondamente la vocazione originaria dell’area. Un ulteriore caso emblematico è rappresentato da Venezia, dove i tradizionali bacari (osterie locali) stanno lasciando il posto a wine bar e ristoranti stellati, rendendo sempre più difficile per i residenti trovare luoghi accessibili e autentici. Qui, l’Amministrazione comunale ha avviato politiche di contenimento per arginare la sostituzione di negozi storici con locali di ristorazione, ma con risultati altalenanti. Proprio Venezia e Firenze rappresentano situazioni borderline: il fenomeno della foodification si intreccia con l’overtourism, portando al rischio di snaturare i centri storici. Fenomeni che si collegano con l’aumento del costo degli affitti in queste città e la sempre minore presenza di abitazioni destinate ai cittadini, spesso costretti a trasferirsi in periferia se non nella più prossima provincia. Basti pensare che nel centro storico di Firenze sono presenti 9.837 operatori disponibili per hotel e strutture ricettive, tra cui hotel, bed and breakfast (B&B) e altre sistemazioni. Venezia è invece vittima della sua stessa fama. La sua popolazione ha subito un significativo calo negli ultimi venti anni passando da circa 70.000 abitanti ai 49.172 del 2023. Le aree più colpite dal calo sono il centro storico e le isole, non a caso quelle più turistiche, mentre la terraferma ha registrato perdite più contenute. A crescere in parallelo è stato anche il costo della vita.

La diversificazione del mercato

Uno studio condotto da CGA by NielsenIQ, in collaborazione con Jakala e pubblicato a fine 2023, offre una visione dettagliata e approfondita del settore della consumazione fuori casa in Italia. Questa ricerca rappresenta una delle analisi più complete del mercato, evidenziando la straordinaria varietà e vitalità dei locali italiani. L’analisi rivela che il 17% dei punti di consumo (bar, ristoranti, pizzerie, rosticcerie, etc.) si concentra in 12 grandi città, mentre il 44% si trova nei centri urbani. Questo dato sale al 60% per quanto riguarda le enoteche e i locali serali. Prendendo come esempio Milano, sono stati censiti più di 12.000 locali: di questi, oltre 6.000 sono ristoranti, quasi 5.000 sono bar, circa 800 sono strutture ricettive e più di 700 offrono altri tipi di servizi, tra cui gelaterie, panetterie e rosticcerie. La varietà culinaria in Italia è ampia e ben rappresentata. Più della metà dei ristoranti italiani si concentra sulla cucina tradizionale del Belpaese (54%), seguiti dalle pizzerie (19%) e dai ristoranti-pizzeria (12%). A completare il quadro ci sono i ristoranti etnici (6%), i locali per il cibo d’asporto (5%), le paninoteche e piadinerie (3%) e i fast-food (1%).
Tra i ristoranti italiani, circa il 13% si distingue per un livello di eccellenza medio-alto, offrendo esperienze culinarie di qualità premium. Non si tratta solo di cibo: la scelta dei consumatori dipende anche dal momento della giornata. Nei bar, ad esempio, la colazione rappresenta l’occasione di consumo principale per il 48% degli esercizi, seguita dal pranzo (30%). La fascia serale è meno rappresentata, con il dopo cena che copre il 13%, l’aperitivo il 9% e la cena solo l’1%. Il legame tra consumazione fuori casa e turismo è molto forte in Italia. Quasi il 40% dei locali si trova in comuni costieri, e tra questi, il 10% è situato direttamente sulle spiagge. Più dell’80% degli hotel e dei B&B è naturalmente collocato in aree con un’elevata attrattività turistica. Questo dimostra quanto il turismo sia motore fondamentale per il mercato italiano della ristorazione e dell’intrattenimento.

Il caso della Sicilia

In Sicilia, il fenomeno della foodification segue dinamiche peculiari. Città come Palermo, Catania e Siracusa sono testimoni di una crescita esponenziale delle attività legate alla ristorazione, specialmente nei centri storici. Nel 2023, secondo i dati di Confesercenti Sicilia, il numero di ristoranti e bar nell’Isola è aumentato del 18% rispetto al 2018, mentre le attività artigianali sono diminuite del 12%.
A Palermo, il mercato di Ballarò è stato in parte trasformato in un centro di street food, attirando migliaia di turisti ma suscitando polemiche tra i residenti, che denunciano la perdita dell’autenticità locale. Catania, con la sua Via Etnea e il centro storico, ha visto l’apertura di numerosi bistrot e wine bar, mentre a Siracusa, in particolare sull’isola di Ortigia, i ristoranti hanno preso il posto di molte botteghe artigianali.
Attraverso una semplice ricerca effettuata su Tripadvisor, uno dei più conosciuti motori di ricerca nel settore del food, è poi possibile ricostruire una mappa di attività di ristorazione attive nelle città siciliane. Palermo è la prima a distinguersi con 2.472 risultati complessivi, numero che scende a 2.149 se si escludono dai filtri della ricerca le attività che si occupano di sola consegna a domicilio e all’interno delle quali non sono disponibili posti a sedere per consumare i propri pasti. A Catania il numero scende a 1.620 attività, che diventano 791 a Messina, 782 a Siracusa, 391 a Ragusa, 387 a Trapani e 316 ad Agrigento. Chiudono la classifica delle province peloritane Caltanissetta ed Enna, rispettivamente con 152 e 90. E poi sono presenti sproporzioni rispetto alla superfice del comune e al numero degli abitanti, come nel caso di Taormina, dove a fronte di una popolazione di circa 10.000 cittadini (Istat 2024), i ristoranti presenti nell’area risultano 262. Una media approssimativa di un’attività di ristorazione ogni 38 abitanti.
Numeri elevanti in proporzione anche a Modica (286), Noto (241) e Cefalù (211) e San Vito Lo Capo, che con 4800 abitanti presenta 180 attività: un locale ogni 26 residenti circa. Tutti dati che testimoniano come la foodification avanzi indisturbata anche alle nostre latitudini. Qui subentrerà la classica diatriba tra pro e contro, ma bisognerebbe provare a scavare un po’ di più in termini di pensiero critico.

Impatti economici e turistici

Innegabili sono gli effetti prodotti dal punto di vista economico come ricaduta a pioggia per i commercianti locali in grado di sfruttare il fenomeno. Dal punto di vista economico, il settore della ristorazione genera posti di lavoro e alimenta il turismo. Basta dare una occhiata ai dati.
La ristorazione italiana ha raggiunto un valore di 82 miliardi di euro nel 2023, rappresentando circa il 3% del mercato globale della ristorazione. Il canale dei ristoranti, in particolare, ha fatturato 41 miliardi di euro, posizionando l’Italia al primo posto in Europa per questo segmento. Anche il fatturato ha mostrato una crescita annua di circa 9,6%, evidenziando un recupero notevole nel periodo post-pandemico.
Eppure, come scriveva lo scorso marzo Il Sole 24 Ore, prendendo in considerazione una analisi di Deloitte, i margini per il settore sono ancora molto ampi nel nostro Paese: “In Italia le catene di ristorazione valgono il 10% del mercato, in Europa il 26% e nel mondo il 35. C’è dunque ancora molto spazio di crescita. Anche se la crisi dei consumi nell’ultimo anno non sembra aver premiato molto in termini di ricavi gli investimenti effettuati. Le catene nel 2023 hanno infatti fatturato 8,2 miliardi, con una crescita annua che sfiora l’11%. Non molto lontano quindi dal tasso di inflazione, ma comunque superiore alla media del settore, cresciuto dell’8,6% medio”. Più concorrenza dovrebbe far rima con migliore qualità: non è affatto così, anzi. Il prodotto di massa produce minima spesa per massima resa: a pesare davvero è il costo di affitto dei locali nei centri storici. L’aumento dei prezzi di queste attività di ristorazione, soprattutto nei centri storici delle città, rischia di essere di “cartello”. E poi ancora il rischio di omogeneizzazione urbana, che penalizza la diversità economica e culturale. Sul piano turistico, la foodification è un potente attrattore. I food tour e le esperienze gastronomiche rappresentano ormai una componente fondamentale dell’offerta turistica italiana, ma spesso a scapito della vita quotidiana dei residenti, che vedono ridursi gli spazi e i servizi a loro disposizione. La foodification è un fenomeno complesso e inevitabile, ma che richiede una gestione attenta e sostenibile, che dovrebbe sostituire il tema della deregulation di fatto vigente allo stato attuale. Politiche pubbliche mirate potrebbero favorire un equilibrio tra lo sviluppo del settore della ristorazione e la salvaguardia della diversità economica e culturale dei centri urbani. In Sicilia sarebbe necessario valorizzare le tradizioni culinarie locali senza compromettere l’identità storica e sociale delle città, con un rapporto equilibrato tra prodotto tipico e attività in franchising come i fast food. Solo un approccio integrato potrà trasformare la foodification da rischio in opportunità reale per la Sicilia e i suoi abitanti, garantendo un futuro in cui l’enogastronomia rappresenti un motore di sviluppo, ma non l’unico protagonista dello spazio urbano. Evitando così che sia il cibo a divorare le città.

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