Sono creature fragili e recitano: è il loro lavoro. E quelli bravi, come Demi Moore, ci convincono. Così che ci ritroviamo a pensare “poverina, buon per lei” quando riceve il suo primo Golden Globe
«Mi sono sempre chiesto come sia Patrick Swayze nella vita vera» dice il collega libraio di Hugh Grant a Julia Roberts in Notting Hill, dopo averla scambiata per Demi Moore e averle fatto molti complimenti per la sua performance in Ghost. Una scena che fa ridere ma anche riflettere, perché negli anni Novanta Moore e Roberts stavano lavorando parecchio, più di molte altre.
Roberts avrebbe poi prosperato nel millennio successivo, stabilendosi anche come attrice preferita di alcuni registi di tutto rispetto, vincendo l’Oscar per Erin Brockovich nel 2001 e mantenendo i mutui pagati continuando a recitare in alcune cazzatone ben confezionate.
Moore invece sarebbe rimasta nell’ambito per cui era diventata famosa, cioè le tavanate per il grande pubblico, per poi diventare soprattutto l’ex moglie di Bruce Willis e infine quella con il fidanzato giovane. Non c’erano grandi ruoli per lei, almeno fino al 2024, quando la ritroviamo protagonista di The Substance a interpretare praticamente sé stessa: una donna molto famosa e molto bella che l’industria dell’intrattenimento sta mettendo da parte perché dopo una certa età le signore finiscono nel bidone dell’umido. Che forse era vero una volta: Sally Field aveva 42 anni quando nell’88 era l’innamorata di Tom Hanks in L’ultima battuta, sei anni dopo era sua madre in Forrest Gump. Tom Hanks ha dieci anni meno di lei.
Rivincite
Oggi però è diverso, i limiti della desiderabilità si sono ampiamente estesi e non solo perché la chirurgia estetica si è affinata al punto da far sembrare The Substance un documentario, ma anche perché nessuno potrà dire a una con l’aspetto di Demi Moore, bella da sempre e apparentemente inossidabile, che sembra una vecchia ciabatta da buttare via. Adesso non le potranno neanche più dire che non sa recitare o che il cinema d’autore non è affar suo: da qualche giorno è impossibile non incorrere in articoli sulla rivincita di Demi Moore e sul suo discorso alla serata dei Golden Globe, dove ha vinto come migliore attrice protagonista, ritirando il prezioso artefatto vestita suggestivamente da statuetta degli Oscar e sorreggendolo con due braccia scolpite nel marmo che una donna normale non ha nemmeno a 25 anni.
Il discorso faceva più o meno così: mi hanno detto che potevo essere solo un’attrice da popcorn e io ci ho creduto. Invece eccomi qui, a 62 anni e dopo 45 di carriera, a ricevere il mio primo premio da attrice, a coronare il sogno di essere presa sul serio e di aver un prestigioso ciocco d’oro con cui arredare almeno una delle mie mensole.
Creature fragili
È una bella cosa, sono felice per lei. Mi sento peraltro istintivamente affine a chi si ostina a portare i capelli lunghi a oltranza, scelta ritenuta spesso inaccettabile dopo le scuole elementari e che invece io difenderò fino alla morte (la mia opinione più controversa è che nessuna donna sta meglio con i capelli corti, lo dimostra Demi Moore che è stata rapata a zero e ha sfoggiato con irreprensibile professionismo uno dei peggiori tagli della storia del mondo, il pitale rovesciato di Ghost).
Alla fine del suo discorso però Moore mi perde con il solito messaggio positivo sull’accettarci tutte così come siamo, che a Hollywood credo sia obbligatorio per legge, ma che ormai mi ha saturato oltremodo. Non credo sia una grande impresa accettarsi nelle sue condizioni: il suo aspetto le ha pagato decenni di case e macchine e vacanze e tutti i discreti ma evidenti interventi di medicina estetica che denunciano un’accettazione di sé un po’ così così. Ma gli attori recitano, è letteralmente il loro lavoro. E quelli bravi ci convincono. È così che ci ritroviamo a pensare “poverina, buon per lei” di una strafiga milionaria che incassa la Siae ogni volta che qualcuno si siede a un tornio per ceramica.
È semmai l’esercizio dell’autocritica ad essere sottovalutato da quelle parti. In questi giorni gli incendi a Los Angeles stanno devastando alcune zone in cui risiedono molte persone famose, distruggendo le loro case e lasciando al loro posto mucchi di macerie fumanti. «Sembra Dresda» ha commentato Mel Gibson, «Pacifc Palisades sembra Gaza» ha detto Jamie Lee Curtis. Il senso del tono di queste persone è un pelo sfasato, bisogna ricordarselo.
Ma non penso siano in malafede: forse pensano davvero di non valere abbastanza finché un orpello da posizionare in bella vista non dice loro il contrario, forse credono di dover utilizzare al meglio il loro potere mediatico per poter cambiare il mondo in meglio («potete fare tutto, tranne dire al paese per chi votare» ha esordito Nikki Glazer nel discorso di apertura dei Golden Globe) o che Malibu tra le fiamme ricordi proprio una zona di guerra (è un’orribile tragedia, certo, ma tra tutte le case che possono bruciare quelle di chi ne possiede con ogni probabilità almeno tre o quattro extra sono quelle per cui possiamo struggerci di meno).
Sono creature fragili, gli attori, e a nessuno dovrebbe importare cos’hanno da dire, dal momento che il loro più grande talento è ripetere le parole che hanno scritto gli altri. E invece si apre ufficialmente la stagione dei premi, in cui come ogni anno sguazzerò, tra vestiti più o meno azzeccati, cerimonie più o meno avvincenti, riconoscimenti più o meno meritati e una marea di discorsi edificanti. A cui, ancora una volta, crederemo tutti.
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