Un circoletto rosso sulla carriera del Re di Coney Island

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(di FRANCESCO RIVANO). Oggi mi va così, di immaginarmi a spostarmi da una parte all’altra del modo, avanti e indietro alla ricerca di qualche personaggio interessante da studiare, di qualche paesaggio meraviglioso da contemplare, di qualche bel ricordo da rivivere. E tra un viaggio e l’altro immagino di fermarmi a gustare le prelibatezza delle diverse culture culinarie; che so, un giro  Valencia a gustare un’ottima paella; un salto in Borgogna per innaffiarla con un raffinato vino d’oltralpe; una capatina in Giappone a trovare i maestri del sushi per poi tornare sempre dove il cibo è impareggiabile e inarrivabile, la nostra cara e amata Italia. A furia di parlar di cibo però mi è venuta voglia di qualcosa di sfizioso, un qualcosa di lontano dalla nostra tipicità, un qualcosa tipo American Style. E cosa c’è di meglio (qualcuno potrebbe dire “di peggio”) di un buon Hot Dog!!! Brooklyn,fine anni ’70, più precisamente Coney Island, laddove l’Hot Dog è stato inventato, ecco dove si ferma oggi la mia immaginazione. È sulle note di una famosissima canzone, che Frank Sinatra porterà in giro per il mondo facendola diventare l’inno della Grande Mela, che inizia il nostro nuovo viaggio.  

“If i can make it there, i’ll make it anywhere”. Queste parole scandite dalla voce di Liza Minelli  interprete, diretta da Martin Scorsese e affiancata da Robert De Niro, nel celebre film “New York New York”, sembrano profetiche. Riecheggiano in tutta Coney Island di fine anni ‘70, con la melodia che solo la figlia di Judy Garland sa donar loro, e arrivano chiare e forti ai timpani delle giovani donne suscitando in esse un senso di speranza per il futuro dei loro figli, nati, o prossimi a nascere, in un quartiere che, esclusivo e raffinato fino alla Grande Depressione, è finito invece ad ospitare i reietti di Manhattan. L’involuzione subita da quell’angolo speciale di New York è stata drammatica sia sul lato sociale chE su quello architettonico. Oramai a far da sfondo ci sono Luna Park e playground, la spiaggia sull’atlantico e playground, la Wonder Wheel e…. ancora playground. Ma soprattutto si respira un’aria pesante intrisa di difficoltà. È in questo ambiente che nel Febbraio del 1977 il vagito dell’ennesimo figlio di Mabel si distingue. Un pianto che denota un carattere forte, deciso, forse arrogante ma sicuramente degno di essere preso in considerazione: “da segnare con un “circoletto rosso” . Già da bambino a far la voce grossa, a richiedere che le luci del palcoscenico siano tutte e solo per lui.

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Di certo non si può usare la parola umiltà raccontando le sue gesta. Il basket è il filo conduttore della sua vita; i suoi fratelli Eric “Sky Dog”, Donnie “Sky Pup”, Norman “Jou-Jou” sono talentuosi e irriverenti ma nulla in confronto a chi è in grado di sommare il tutto in un unico corpo: la durezza di Eric, la balistica di Donnie e il ball handling di Norman. La Lincoln è la High School di riferimento della famiglia e anche il piccoletto di casa, che gli piaccia o no, è costretto a  frequentarla. Basta poco per capire che i libri gli piacciono poco e ancor meno gli piacciono le regole. Lo sport si, quello gli piace, che dico lo sport, il basket. Ma non il basket liceale, quello non lo attira, lui vuole solo il basket di strada. La palla che rimbalza sull’asfalto suona una musica molto più dura e greve, proprio come piace a lui, mica quella pantomima di partite giocate con divise standard in palazzetti puliti ed impeccabili. The Garden, Rucker Park, The Cage, li gira tutti in quelle infinite partite contro i rivali di quartiere che finiscono sistematicamente a soccombere alla sua presunzione e onnipotenza cestistica. Non risparmia nessuno, giocatori e allenatori avversari, in strada come in palestra, li ridicolizza con un trash talking innato, dando libero sfoggio ad un atteggiamento da bad boy che lo avvicina a cerchie di personaggi non proprio raccomandabili, che lo rendono intoccabile, da emulare, da rispettare. Diventa il Re di Coney Island , il futuro della sua gente e sa che farà strada perché è fastidiosamente consapevole del suo talento.

 “Maleducato, irriverente, arrogante e narcisista”. Così lo definiscono su Harper e da quel momento in poi decide di cambiare. È come se qualcuno gli avesse sbattuto in faccia una verità troppo dura da essere accettata, come se fino a quel momento non si fosse mai reso conto della sua reale natura. Le parole scritte su quella rivista lo toccano e illuminano il suo pensiero tanto da invertire bruscamente la rotta verso un atteggiamento “professionale” che gli avrebbe permesso di far strada nella sua unica dote, il basket. E poco importa se quella del bravo ragazzo è solo una parte da recitare. Lincoln High School, Georgia Tech, ogni singolo playground della città, sempre a  dominare senza appello. E inevitabile arriva la NBA.

La scelta è la numero 4 e ce l’ha Milwaukee che non crede in lui. Scambio immediato con i titolari della numero 5, i Minnesota Timberwolves, per arrivare a quel Ray Allen che da li a poco girerà a “a casa della famiglia di Mabel” il famosissimo capolavoro di Spike Lee “He Got Game”. Gli Wolves accettano di buon grado lo scambio per creare una combo che avrebbe potuto dominare la NBA dopo qualche kilometro di rodaggio. Lui, il figlio di Mabel, & The Revolution, a Minneapolis ed è subito storia.: primo approdo ai playoff della franchigia. I primi due anni sono stellari, si intravede un futuro roseo per i Wolves finché la vera natura del nativo di Coney Island riaffiora. Torna a essere quel ragazzino presuntuoso che sfidava il mondo intero al playground, e dopo aver rinunciato ad un rinnovo che  non ritiene all’altezza del suo talento, decide di averne abbastanza, perché lui non è il secondo violino di nessuno. E vola nel New Jersey, a vestire la casacca dei Nets. Un newyorkese doc a East Rutherford? Non proprio benissimo! Lui non ama i Nets ne tantomeno i Nets amano lui e dopo i tre anni trascorsi fuori dai playoff, dopo essere sceso in campo con scritto sulle scarpe “All alone number 33”, è divorzio. Però con quella casacca qualcosa di straordinario l’ha fatta e resta un ricordo indelebile nella mente degli amanti del basket. Siamo a Washington D.C., venti punti di scarto tra Est e Ovest e partita delle stelle che sembra archiviata. Sembra! Con l’aiuto di Allen Iverson super ispirato e di un Dikembe Mutombo in versione “not in my house” ribalta la Western Conference regalando al pubblico in visibilio uno degli ultimi All Star Game degni di essere ricordati. Deve di nuovo allontanarsi dalla costa atlantica e questa volta ad accoglierlo c’è il sole e il caldo del deserto dell’Arizona. La squadra gli piace perché concede il timone tra le sue mani. Si va dove decidi lui e l’incontro con un altro talentuosissimo big man, Amar’e Stoudemire, lo esalta tanto da arrivare mettere non pochi granelli di sabbia nei perfetti ingranaggi della dinastia Spurs durante i playoff del 2003. Sembra un matrimonio destinato a durare, ma anche qui va tutto a rotoli. Il nuovo coach, un tizio dal cognome italiano, sta impostando uno stile diverso di gioco che non gli piace, non lo esalta, per il quale non è tagliato e pian piano viene messo da parte. “Ma chi crede di essere questo, deve portar rispetto per il Re di Coney Island. O me o lui” e la dirigenza sceglie il coach, rimpiazzandolo con un “nano” bianco canadese. “Non sanno quello che fanno” pensa (e invece lo sapevano eccome), ma arriva la chiamata che non si aspetta e tutti i problemi svaniscono. Si ritorna a casa, non in quel posto di merda del New Jersey, si va a New York, tra la sua gente, per la sua gente, a riportare i Knicks laddove una franchigia del genere merita di stare: in vetta. Lo spirito è quello giusto, l’arroganza e le palle non mancano ma “nemo propheta in patria”. La squadra fatica a decollare, i risultati non sono quelli preventivati e il pubblico inizia a pensare che non sarà il Re di Coney Island, a risollevare le sorti della franchigia nonostante ci sperasse da quando era poco più che un bambino. E a rincarare la dose arriva di nuovo quell’allenatore d’origine italiana. “Entra in campo”. Non lo degna neanche di uno sguardo, i rapporti si raffreddano in modo irreversibile e scappa a Boston. Figuriamoci se accetta di restare a far la riserva di un ragazzino con la nove che non sa neanche tirare. Capisce che la NBA non gli sta più bene, e vola in Cina a spiegare basket, perchè se l’hai fatto a New York puoi farlo ovunque, come cantava Liza. I cinesi uno così non lo avevano mai visto neanche nei videogame.

È di fronte a un piatto di Jiaozi cotti al vapore che finisce questo viaggio, ma prima di lasciare questa fantastica illusione voglio rendere omaggio ancora a volta alla sua celestiale capacità di produrre basket ovunque sia stato, perché anche se viviamo nel mondo del risultato a tutti i costi, il talento non si misura in anelli ma in emozioni e lui, dannato Stephon Marbury, Re di Coney Island, ne ha regalate parecchie, tutte da segnare con un “circoletto rosso” come avrebbe detto il buon Rino Tommasi che ha appena lasciato orfani tutti i giornalisti, o aspiranti tali, che amano raccontare lo sport.

—————- Francesco Rivano nasce nel 1980 nel profondo Sud Sardegna e cresce a Carloforte, unico centro abitato dell’Isola di San Pietro. Laureato in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Cagliari, fa ritorno nell’amata isola dove vive, lavora e coltiva la grande passione per la scrittura. Circondato dal mare e affascinato dallo sport è stato travolto improvvisamente dall’amore per il basket. Ha collaborato come redattore con alcune riviste on line che si occupano principalmente di basket NBA, esperienza che lo ha portato a maturare le competenze per redigere e pubblicare la sua prima opera: “Ricordi al canestro” legato alla storia del Basket. Nel 2024 ha pubblicato la sua seconda, dal titolo “La via di fuga” Link per l’acquisto del libro.





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