Dino Campana, versi e prose del poeta con la febbre

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La generazione poetica dei nati negli Ottanta dell’Ottocento andò a maturare negli anni Dieci del Novecento: una generazione quasi solo all’anagrafe, giacché ognuno faceva poesia per conto proprio e a volerne accomunare le opere o lo spirito occorrerebbero categorie di grana troppo grossa: aprono, segnali futuristi a parte, Moretti, 1885 (Poesie scritte col lapis, 1910), Palazzeschi, 1885 (L’incendiario, 1910) Gozzano, 1883 (I colloqui, 1911), Saba, 1883 (Poesie, 1911, e Coi miei occhi, 1912); negli anni proprio prima che l’Europa si incendi, arrivano Rebora, 1885 (Frammenti lirici, 1913), Onofri, 1885 (Liriche, 1914), Sbarbaro, 1888 (Pianissimo, 1914) e chiuderanno, a Grande guerra già in corso e proiettato verso esiti misteriosi, Ungaretti, 1888 (Il porto sepolto, 1916), a guerra finita, e a concludere il decennio, ancora Ungaretti (Allegria di naufragi, 1919) e Jahier, 1884 (i versi e la prosa lirica di Ragazzo, 1919). Però, nonostante le diversità, il momento è di snodo, in quella che è forse l’ultima o penultima stagione di fiducia piena nella poesia.

Usciti nel 1914 per un tipografo di Marradi, la cittadina natale del poeta, i Canti Orfici di Dino Campana (1885-1932) sono un libro e, più ancora che tutti gli altri sopra elencati, una leggenda. Opera unica dell’autore, ne sono anche l’identità (magari negata): «Quella volta si era tolto di seno per me i Canti Orfici, che si portava addosso come un certificato di nascita», scrive Sbarbaro in Trucioli; ma Campana, a Pariani che gli proponeva di leggerne insieme qualche pagina: «Serve ad ammazzare la gente quel libro…».
Benché opera unica, i Canti sono tuttavia contornati da una serie di testi che vi convergono o di lì ripartono, e li attraversano sempre, in un’ansia di rielaborazione, anche indotta dal tremendo episodio dello smarrimento della prima versione, Il più lungo giorno, consegnato a Papini e da Papini a Soffici, indi smarrito e, parrebbe, riscritto a memoria e rititolato (riaffiorato quaranta anni dopo la morte di Campana dalle carte di Soffici). Ma la voglia di dir meglio, più pienamente, diede origine a una cascata di stelle nella notte.

Tutto è ora in Dino Campana, L’opera in versi e in prosa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta («I Meridiani» Mondadori, pp. CXCVIII-1540, € 80,00). Qui le poche decine di pagine dei Canti Orfici e le centinaia di appunti, rifacimenti e lettere sono messe a respirare tra le novecento pagine di Introduzione, Cronologia, Notizie sui testi e Note di commento, che sono in colloquio tra di loro nel modo che è necessario (dunque non nascondono il testo, ma ne sono l’accorta guida), giacché Campana pone in modo esemplare il rapporto tra biografia e opera, questione che va sempre affrontata, a patto però di non volerla risolvere dandole risposta univoca (senza recidere ma anche senza inondare); e a patto di non giocare troppo con le formule: va affrontata con mobilità. Per Campana, come per tutti, la poesia sta infatti nella forma, ma il poeta sta (anche) nella vita che gli tocca vivere. Forse problema del poeta, di certo problema del lettore è vedere come quella vita nomade e reclusa al tempo stesso, esplosa e implosa, si sia fatta parola.

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Anche per ciò, intorno a Campana la discussione è stata lunga e articolata, con l’utilizzo di un formulario ricco ma alla lunga un po’ stucchevole: poesia contro o pro follia (entrambe le formule sono entrate nel campo delle possibilità), visivo o visionario e così via. Anche un passaggio come l’osservazione di Carmelo Bene, di Campana grande poeta perché con un buco nell’essere (contrapposto un po’ a effetto a Montale e alla sua poesia cartolina, sempre secondo Bene: del resto, se non fosse stato così estremo, non staremmo qui a ricordarlo, benché perplessi), che cos’altro è se non una rendicontazione aforistica del rapporto tra biografia e opera?

Proprio per il rapporto tra poesia e biografia la forma del Meridiano è la più adatta a ricostruire l’universo campaniano. Gianni Turchetta, che degli studi intorno a Campana è un veterano, molto è stato attento, durante quattro decenni, alla ricostruzione equilibrata, e fuori del mito, della vicenda terrena del poeta, con volumi e interventi. Così, anche per il curatore si potrà dire che si tratta del libro di una vita, bilanciato tra l’esigenza filologica, la passione interpretativa, la ricostruzione dei fondali. Uno dei punti di fuoco è l’attenzione data a una delle ultime prose del libro, L’incontro di Regolo, che finisce con «così puri come due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all’irreparabile», e soprattutto passa per il cuore di Campana e della sua poesia: prima con «Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione», poi, culminando: «Ogni tanto rivedevo il suo sguardo strabico fisso sul fenomeno, sulla parte immota che sembrava attrarlo irresistibilmente: vedevo la mano irritata che toccava la parte immota. Ogni fenomeno è per sè sereno».

Possiamo forse dire che Campana è stato un poeta con la febbre, come sa chi ha in mente, esempio supremo, L’invetriata e come il commento schiarisce; ma si tratta di una febbre anche a freddo, qui con «la costruzione del fitto intreccio di iterazioni monosillabiche, spezzature ritmiche, riprese e inversioni» che caratterizzano il testo già sul nascere, con le correzioni apportate sempre più intricato, fino alla «densità trascinante e ipnotica della versione definitiva»: si va da «Sopra un terrazzo sul fiume sta la Madonnina del ponte / La lampana è accesa: e c’è / Nella stanza un odor di putredine, c’è / Nella stanza una piaga rossa languente» al davvero febbricitante (con retorica consapevolezza) «Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha / A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – c’è / Nella stanza un odor di putredine: c’è / Nella stanza una piaga rossa languente». Ma questo lavorio, questo fabbricare miti nuovi sugli antichi, è forse ritenuto ormai lontano in quei versi famosi per Sibilla Aleramo: «Fabbricare, fabbricare, fabbricare / Preferisco il rumore del mare / Che dice fabbricare fare e disfare / fare e disfare è tutto un lavorare / Ecco quello che so fare».

Né va dimenticato che i Canti orfici non sono soltanto un libro di poesia, ma sono anche un libro per collezionisti: «Uno dei libri più ricercati del Novecento» scriveva la guida di riferimento dei bibliofili, il Gambetti-Vezzosi. Esiste anche una biografia del libro – del volume e delle sue vicende – intrecciata a quella dell’opera in esso contenuta. Di quest’ultima si è accennato. Ma la biografia del libro come oggetto materiale, cartaceo, è anch’essa avventurosa: incerta la tiratura, incerta la rifilatura degli esemplari, incerta la diffusione e incerto il numero di copie superstiti. Incerta la carta scelta, come subito nota Boine: «La carta a piacer suo muta di qualità tre volte in centosettanta pagine – brache, giacca e gilet di tre diversi vestiti». Leggenda e realtà si sono scambiate di posto nel corso degli anni: Campana che vendeva e strappava pagine, i carabinieri insospettiti che inducono per precauzione a grattare dalla pagina la dedica a Guglielmo II.

La tiratura probabilmente sarà stata poco più di cinquecento copie, variamente manomesse forse dall’autore stesso, in massima parte distrutte da una squadra di soldati americani che risalendo la penisola durante la Liberazione si accampano in casa Campana e lì le trovano, dismesse dalla stamperia e collocate in cantina: fa freddo e le usano per accendere il fuoco (la vicenda è stata raccontata con gusto e dolore di bibliofilo da Giampiero Mughini in La collezione). Nei riscontri più recenti, Turchetta dice che ne risultano superstiti 120 esemplari, 37 con dedica. Di certo smarrita nell’alluvione di Firenze la copia di Montale: nel «sotterraneo chiuso a doppio lucchetto», dice uno degli Xenia, «forse hanno ciecamente lottato (…) il timbro a ceralacca con la faccia di Ezra, / il Valéry di Alain, l’originale / dei Canti Orfici». Non era una cantina, era un Olimpo.



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