Riscoperto dalle nuove generazioni anche grazie alla spinta di Tiktok, Fiori per Algernon (Tea, traduzione di Bruno Oddera) è un’esperienza letteraria dalla quale è difficilissimo uscire; dapprima pubblicato sotto forma di racconto e poi rieditato nella sua versione completa, l’opera d’esordio di Daniel Keyes gode oggigiorno di una rinnovata attualità, e ciò tanto per l’importanza degli argomenti trattati (specie quelli di carattere etico-morale) quanto per l’indiscussa peculiarità della scrittura (comunque un unicum nella narrativa contemporanea).
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Dimensione fattuale – quella di un successo che si ripete – che peraltro ben riflette la struttura concentrica della narrazione: prendendo il via da un labirinto tridimensionale (di quelli utilizzati in medicina per i test psico-cerebrali), l’indagine sul quoziente intellettivo del topolino Algernon si fa strada sin dal titolo per raccontarci il percorso di Charlie Gordon, un ragazzo diversamente abile che, sottoposto a terapia sperimentale per il recupero delle capacità cognitive, si specializza al pari di un genio per poi declinare ai livelli di un bambino.
Ciò detto, e senza ripercorrere l’andamento circolare della trama (perché si chiude proprio laddove inizia/finisce), proviamo a individuare insieme otto ragioni che ne giustificano la rilettura; pur certi che, a distanza di anni, saremo ancora qui a parlare del romanzo-dedalo come di una Storia che non ci lascia andare più (magari con riferimento all’I.A. o alle nuove considerazioni sui vaccini a mRNA).
Un romanzo psicologico
Se vogliamo circoscriverlo in un genere, Fiori per Algernon costituisce un chiaro esempio perfetto di romanzo psicologico (con una nota di fantascienza); impaginato al fine di raccontare la disabilitá cognitiva di Charlie (un problema di tipo neurologico che lo contraddistingue sin dall’infanzia), utilizza gli errori di battitura – e una sintassi sgrammaticata, e un linguaggio sconnesso – quali espedienti di stampo tipografico per rappresentare l’andirivieni della malattia. E lo fa nelle forme di un “raporto sui progresi”: introducendo ogni capitolo con una cronologia certa – dal “3 marzio” al 21 novembre – l’autore predilige la forma del diario autobiografico per meglio tenere traccia degli sviluppi del protagonista, e ciò non soltanto da un punto di vista clinico (perché quando la malattia regredisce Charlie impara a scrivere in maniera corretta) ma, soprattutto, quale metodo di autoanalisi per dare voce a ogni tipo di emozione (tenerezza, rabbia e amore, in particolare).
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Cavie da laboratorio
Ambedue sottoposti a una chirurgia da loro non autorizzata (quella che ne mira a migliorare le funzioni cerebrali), sia Algernon sia Charlie sono vittime inconsapevoli di un’esistenza alla mercede di altri; partendo dalla medesima condizione di sopraffazione – l’uno perché un topolino qualunque, l’altro in quanto soggetto fragile – subiscono il progetto del Professor Nemur senza avere possibilità di opporvisi in maniera alcuna. E poco rileva, a tal proposito, se entrambi gioveranno dell’esperimento per un periodo limitato di tempo; privati del libero arbitrio come pure condannati agli effetti a lungo termine, il roditore più abile del mondo e il paziente della clinica Warren diverranno alfine due semplici cavie da laboratorio, materiale destinato alla scienza per la sola ragione di apparire sacrificabili. Un po’ come succede all’homunculus Pallino nel Cuore di Cane di Michail Afanas’evič Bulgakov, ma con conseguenze ancora più drammatiche.
Passione per la letteratura
Nel percorso post-operatorio che vede Charlie transitare da “deficiente” (così nel testo) a “genio”, sono tanti i romanzi di cui parla Keyes e che fanno da compendio alla rapida evoluzione del protagonista. A partire dall’epigrafe; nel citare la Repubblica di Platone, l’autore già ci anticipa il dibattito intorno all’etica che fa da sfondo al libro; accanto a essa, le opere di Francis Scott Fitzgerald, Fëdor Dostoevskij e Gustav Flaubert (ma non sono i soli) divengono per Charlie un antidoto all’ignoranza, svincolando lo stesso dal pregiudizio di stupidità che l’ha sempre perseguitato. Ma è soprattutto il Robinson Crusoe di Daniel Defoe il personaggio in cui meglio si identifica: “Soltanto mi spiacce per lui perché è tuto solo e non a amici” ci racconta il ragazzo al termine della lettura “(…) Spero che trova un amico e non sarà più tanto solo”. Come se parlasse un po’ di sé stesso.
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Trigger warning: abilismo
Quasi una presa di coscienza rispetto all’inadeguatezza nell’affrontare certi argomenti, il testo di Daniel Keyes ci delucida sull’abilismo quale piaga sociale al pari del razzismo o dell’omotransfobia; spesso silente o peggio ancora normalizzata, la discriminazione nei confronti della disabilità (fisica o psichica che sia) si presenta, nella trama, vero e proprio trigger warning su cui riflettere. Come quando Harriet, la compagna di scuola di cui è innamorato, lo definisce “buffo” e lo fa picchiare da suo fratello Gus, oppure quando Frank, un collega della panetteria del signor Donner, gli fa mangiare una mela finta e ciò al solo scopo di farsi beffe di lui. Ma è ancor più in chi gli augura la “normalità” che si cela lo stigma del pregiudizio; da chi lo immagina incapace di sentimenti a chi lo compatisce per la sua fragilità cognitiva, ciò che emerge sul fondo è una situazione di inferiorità data per scontata, un errore di valutazione per cui chiunque non corrisponda alla “norma” debba necessariamente essere infelice e/o desiderare il cambiamento. Prova ne sia che Charlie è ancora più tormentato una volta divenuto “intelligente”.
Una famiglia disfunzionale
Una situazione – questa della mancanza di accettazione – difficile da tollerare soprattutto quando si rivolge nei confronti di un figlio. In tal senso, è proprio nella figura di Rose (la madre di Charlie e Norma) che il libro raggiunge il suo profilo più spietato; sono queste le pagine in cui la donna – terrorizzata all’idea che la “maledizione” possa travolgere la reputazione della nuova arrivata – decide di affidare il protagonista a una Scuola di addestramento per ragazzi disabili, preferendo dimenticarlo piuttosto che prendersene cura per il resto della vita. Discorso diverso per il padre Matt; inizialmente a supporto del bambino ma poi sopraffatto dall’esaurimento della moglie, finisce per assecondare l’allontanamento del primogenito ma solo dopo averlo salvato dall’ennesimo episodio di violenza (quello in cui Rose minaccia di uccidere Charlie con un coltello da cucina). “È meglio che muoia. Non potrà mai condurre un’esistenza normale. È meglio che muoia…”
Il labirinto
La funzione del labirinto diverrà comprensibile più o meno dalla metà della trama: intrappolato in un passato che non prevede via d’uscita e condiviso fra due donne che lo amano a senso unico (Fay e la Signorina Kinnian), Charlie si aggira nei meandri di sé stesso cercando una spiegazione sul perché i genitori l’abbiano abbandonato. Anche ora che è un “deficiente-genio” (perché in grado di tenere un convegno di fronte alla facoltà di psicologia), il protagonista del romanzo continua infatti a essere tormentato dal vecchio Charlie, tant’è che, sul finale di narrazione, questi apparirà a più riprese per suggerire al nuovo sé l’unica strada percorribile: rintracciare Rose e Matt per arrivare dunque al cuore dell’intreccio. Charlie seguirà il suo consiglio ma non prima di aver liberato Algernon dallo stesso labirinto che gli ha fatto da prigione; suo alter-ego per l’intera durata del romanzo, il protagonista gli offrirà una degna sepoltura ricoprendo con i fiori la sua tomba nel cortile.
Il burden del caregiver
Sorvolando sul fatto che nessuno dei genitori riuscirà a riconoscerlo (Rose poiché lo nega, Matt poiché distratto), Charlie troverà comunque conforto nell’incontro con la sorella Norma; da sempre convinta che suo fratello sia morto – perché così le era stato detto quale giustificazione della sua scomparsa – abbraccerà il protagonista condividendo con lui i ricordi dell’infanzia. Che ancora li uniscono nonostante il passato turbolento; in particolare, ciò di cui parla la sorella è il cosiddetto burden del caregiver (o “peso” di chi assiste una persona con disabilità), una sindrome con tensioni psicofisiche che è spesso assimilata all’esaurimento nervoso e che alle volte rimane non diagnosticata. Che sia stato questo uno dei motivi del comportamento di sua madre? Fatto sta, che terminata la conversazione, il protagonista sembrerà quasi sgravato dal peso di una vita; talché, di lì a poco, l’esperimento inizierà a degenerare e Charlie sarà pronto a ricominciarla daccapo. Ma ad aspettarlo c’è solo la fine.
Daniel Keyes, uno psicologo letterato
Già una laurea in psicologia e poi anche professore di letteratura americana presso il Brooklyn College, Daniel Keyes (New York, 1927 – Boca Raton, 2014) si è occupato di insegnare Scrittura creativa a ragazzi con disabilità cognitiva durante gli anni della sua cattedra in Ohio. Da qui l’idea del romanzo (del 1959); vincitore del Premio Hugo quando era un semplice racconto di fantascienza e poi del premio Nebula nel 1966, venne quindi diretto da Ralph Nelson nel film I due mondi di Charly (pellicola che valse a Cliff Gordon il premio Oscar come migliore attore protagonista).
Ma non solo: utilizzato come materiale didattico in numerosi istituti scolastici inglesi, è stato criticato da alcuni genitori in quanto troppo esplicito nel raccontare la pubertà del protagonista (tema peraltro di estremo interesse quando si discute del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone con disabilità). E per chi volesse approfondire, importanti bestseller dell’autore sono anche Una stanza piena di gente e La quinta Sally (entrambi sul disturbo associativo dell’identità).
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