«I medici lavorano in una gabbia, sotto le bombe, senza vederne la fine»

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Dopo 15 mesi di bombardamenti, la situazione a Gaza è «inimmaginabile». Il dottor Alessandro Verona, coordinatore medico di Medici del Mondo: «Il mancato rispetto della Convenzione di Ginevra porta, oltre alla distruzione delle strutture sanitarie, anche ad aggressioni feroci»

I membri del personale di Medici del Mondo, un’organizzazione medico-umanitaria internazionale che lotta per difendere un sistema sanitario equo e universale, continuano a essere in prima linea e a fornire aiuti in condizioni di estrema instabilità, mentre loro stessi sono sfollati, privi di protezione, cibo, vestiti adeguati e vulnerabili a bombardamenti, malattie e condizioni climatiche avverse. Sia il personale che le operazioni di Medici del Mondo hanno subito, in questo ultimo anno, ripetute ondate di sfollamenti forzati a causa di ordini militari israeliani.

A settembre 2024, il 92 per cento del personale di Medici del Mondo è stato sfollato con la forza. Le operazioni di Medici del Mondo sono state trasferite forzatamente per tre volte e, nell’ultimo anno, solo quattro camion contenenti gli aiuti sono potuti entrare nella Striscia di Gaza. Le spedizioni sono state bloccate per uno o due mesi prima di poter entrare nell’enclave e il personale ha dovuto attendere undici mesi prima che le autorità israeliane aprissero un corridoio umanitario dalla Cisgiordania, dove sono disponibili la maggior parte delle forniture necessarie per la risposta all’emergenza medica a Gaza.

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La crisi del sistema sanitario

Il dottor Alessandro Verona, coordinatore medico di Medici del Mondo, è da poco rientrato in Italia dopo aver lavorato sei mesi in Cisgiordania. Racconta a Domani il lavoro delle équipe: «Quello che viene fornito è il supporto ai ministeri per i medicinali e gli elementi che servono al sistema sanitario per funzionare. A Gaza abbiamo un centro di cure primarie: al suo interno ha anche l’odontoiatria, un piccola radiologia e quattro punti medici – spesso sono tende o container – che si trovano all’interno delle aree in cui ci sono gli sfollati, dove distribuiamo quei pochi farmaci che abbiamo a disposizione e effettuiamo il servizio di monitoraggio della nutrizione e di tutto ciò che riguarda la salute sessuale e riproduttiva».

A Gaza e in Cisgiordania è stato organizzato «un programma di salute mentale e di supporto psico-sociale, perché la ferita della salute mentale incide sulla salute individuale e pubblica, e si tratta di ferite che difficilmente si potranno rimarginare nell’arco di una vita».

L’obiettivo delle organizzazioni umanitarie è quello di sostenere il sistema pubblico che sta vivendo «una crisi mostruosa. A Gaza è stato messo in ginocchio: di 36 ospedali, solo 17 ora sono parzialmente funzionanti. I sistemi di cure primarie, al momento sono funzionanti solo al 38 per cento. Anche in Cisgiordania molte strutture sono solo parzialmente funzionanti: non solo per attacchi diretti ma per una crisi economica molto grave che non sta permettendo di pagare gli stipendi al personale sanitario, e che quindi compromette l’attività di prevenzione, diagnosi e cura».

Un sistema di salute distrutto

È molto complicato parlare di resilienza del sistema di salute quando c’è un sistema che «è stato fatto colare a picco dall’occupazione israeliana. Sono state danneggiate o distrutte 130 ambulanze nella sola Gaza ma le aggressioni e gli attacchi alla salute sono sottostimati: al netto di tutti i bombardamenti più noti, ci sono stati tantissimi attacchi alle ambulanze sia a Gaza che in West Bank. I modi sono molto diversi: a Gaza gli attacchi alle ambulanze avvengono via aria, invece in West Bank avvengono via terra e non solo da parte dall’esercito israeliano ma anche da parte dei coloni».

A Gaza, infatti, manca tutto: «Gli israeliani sono arrivati a fare tabula rasa di tutti i sistemi di resilienza della popolazione. In questo contesto, ciò che abbiamo fatto è sostenere il sistema di salute pubblica, attraverso il ministero della Salute. I colleghi a Gaza lavorano sotto una pressione inimmaginabile: in una gabbia, sotto le bombe e i droni, senza vederne la fine».

I punti medici, che si trovano soprattutto nei campi delle persone sfollate, «sono la capillarizzazione necessaria della salute pubblica per la tutela della salute individuale: senza questi punti sarebbe impossibile raggiungere le persone che si trovano all’interno in una delle zone più densamente popolate del mondo che è stata completamente schiacciata in una striscia di terra».

Dal punto di vista della nutrizione, nel nord di Gaza, «tra gennaio e marzo avremo davanti uno scenario catastrofico: la mortalità attribuibile alla fame sarà tra le due e le cinque morti al giorno per ogni 10mila persone».

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Danni irreparabili

La fame è uno strumento di guerra, ricorda il dottor Verona, «lo è sempre stato. Chi non si uccide con le bombe, si uccide con la fame». Quello che sta accadendo «devasta qualsiasi psiche, i danni sono irreparabili». Il ronzio continuo dei droni «ricorda che il momentaneo silenzio delle armi è solo una pausa tra un bombardamento e l’altro».

Secondo la testimonianza del dottor Verona, «Il mancato rispetto della Convenzione di Ginevra porta, oltre alla distruzione delle strutture sanitarie, anche ad aggressioni. Vengono uccisi, feriti o arrestati operatori e operatrici sanitarie. Vengono feriti o arrestati pazienti. Non possiamo immaginare, nemmeno nel peggiore dei nostri incubi, cosa significhi quando viene chiamata un’ambulanza e ci si ritrova l’aggressore che cerca di finire la sua vittima soffocandola o tentando di toglierle l’ossigeno».

Così come non possiamo sapere «cosa significhi subire un’operazione chirurgica all’interno di un ospedale distrutto, sotto le luci delle torce dei telefoni e senza anestesia. Questa, conclude Verona, «è la situazione reale, che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, dall’altra parte del Mediterraneo. Il livello di violenza, di mancato rispetto delle norme internazionali e i crimini contro l’umanità, sono una curva crescente».

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