Ecco uno strumento che modifica in profondità la nostra percezione dei fenomeni culturali pre-moderni: Latin Literatures of Medieval and Early Modern Times in Europe and Beyond è un corposo volume dedicato alle letterature latine – al plurale – dell’epoca medievale e moderna, a cura di Francesco Stella in collaborazione con Lucie Doležalová e Danuta Shanzer (John Benjamins Publishing Company, Amsterdam/Philadelphia, pp. XVIII-706, euro 218,00). Il sottotitolo – A millennium heritage, e cioè «un patrimonio millenario» – disloca già questa percezione secondo le linee più recenti e aggressivamente aggiornate della riflessione sull’eredità culturale (racchiusa nell’anglismo heritage) e sottrae una disciplina classicamente accademica come la Letteratura latina medievale al destino di puro specialismo che le è riservato nel senso comune, e a volte anche degli studenti di lettere. In uno dei capitoli introduttivi, la studiosa francese Pascale Bourgain mostra come questa enorme riserva di testi e opere sia allo stesso tempo strumento e oggetto di incomprensione per gli studiosi dell’antichità e del Medioevo. Possiamo percepire le latinità medievali e moderne come decadenza oppure come strumento di rallentamento dello sviluppo inarrestabile delle lingue volgari o addirittura come una lunga congerie di fonti inaffidabili perché sottoposte continuamente alle pressioni del potere e a una percezione distorta se non addirittura superstiziosa della realtà.
Pregiudiziali di questo tipo hanno pesato, e pesano ancora, nello spazio ridotto che la disciplina universitaria ha nei nostri ordinamenti – per non dire nelle scuole, dove il latino è relegato a un canone ristrettissimo che non varca il IV secolo e che non arriva alla ventina di autori, nonostante gli esametri di Geoffrey de Monmouth dedicati a mago Merlino abbiano ben poco da invidiare a Tibullo e Virgilio, così come la prosa cancelleresca di Tommaso da Capua e Pier della Vigna non è inferiore a quella di Cicerone o di Tacito. Da lungo tempo Francesco Stella (oltre che curatore, autore di uno dei saggi più programmatici del libro) insiste sul ritardo ormai non più compatibile con l’esigenza di offrire alla coscienza degli studenti un quadro perlomeno europeo, se non globale, della latinità.
Non si tratta solo di allargare i programmi, di pescare autori e testi che possono oggi essere considerati più allineati a un immaginario che fa largo a elementi medievaleggianti con sempre maggiore energia – gli scontri religiosi, gli elementi identitari di lungo corso, l’instabilità dei poteri come anche il rapporto complesso con la verità e l’informazione.
L’obiettivo è più ambizioso, e deve almeno prendere in considerazione l’idea di uscire dalla crisi della modernità con una nuova visione pluralistica e complessa del rapporto con il passato. Non è un caso se il capolavoro di Ernst R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, è scarsamente citato in questo volume. In maniera non polemica, quell’idea di Medioevo come grande traghettatore della Tradizione (con la t maiuscola), atto a garantire in maniera sacrale la continuità tramite il Classico, e il luogo comune-topos, resta sullo sfondo solo come una delle possibili prospettive di interpretazione ma non più come la principale e privilegiata.
Globalizzare la latinità del Medioevo significa anche de-colonizzarla, e cioè maneggiare con attenzione gli spazi di negoziazione culturale che in essa si realizzano incessantemente ma quasi mai in maniera totalmente risolta e pacificata. I saggi nel volume sono numerosi (40 più l’introduzione) perché offrono una moltiplicazione dei punti di attacco a una letteratura che è «impossibile» (l’affermazione è esplicita a p. XII) rendere e descrivere con una storia tradizionale. Una serie di capitoli nazionali, che organizzano autori e cronologia in spazi precisi (per quanto sfuggenti in ambito medievale, ove è difficile parlare di un’area francese o belga, per esempio) si affiancano a un nutrito numero di saggi che si occupano delle concrete modalità di trasmissione dei testi attraverso manoscritti, programmi iconografici e cartografie e infine del rapporto con l’oralità e le culture volgari «emergenti». Sono tutti puntelli problematici, che affiancano allo strumento di informazione delle aperture notevolissime capaci di rovesciare i punti di vista tradizionali.
Spostarsi su aree al di fuori della canonica Europa detta appunto «latina» è già uno slittamento dello sguardo. I saggi sull’Africa pre-araba (IV-VI secc.), sull’Oriente vicino e lontano (Cina e Corea) contribuiscono a far emergere lo spazio di sviluppo autonomo di letterature latinofone in aree solo apparentemente laterali. Il dibattito sul latino dell’Africa, che Juan Luis Vives e l’erudizione moderna avevano considerato negativamente parlando addirittura di Tumor Africus, si è risolto in maniera «ibridizzante», da quando i classicisti sono riusciti a far vedere come le caratteristiche d’arte della prosa latina prodotta a sud del Mediterraneo siano capaci di convivere con elementi di linguaggio autoctono. Il periodo tardo-antico fu in grado di trasmettere questo patrimonio ibrido con figure come Draconzio e Fulgenzio, grande commentatore di Virgilio, passando attraverso la dominazione vandala e bizantina.
A fronte di una linea interrotta a causa della fulminea invasione araba che arrivò fino alla Spagna (VII secolo), le aree più orientale e più occidentale dimostrano non solo la capacità di penetrazione del latino come lingua di comunicazione, ma anche la sua lunghissima durata fin dentro il mondo moderno e quasi contemporaneo nonché la sua apertura verso l’altrove. Il periodo eroico delle missioni francescane del Duecento verso la Cina (precedenti a Marco Polo) e poi quello gesuitico dal Cinquecento producono un’abbondanza di materiale che si inoltra fino al 1800 intrecciandosi con il fascino per la Chinoiserie. Sul fronte amerindiano, gli umanisti formati alla severissima scuola di Lorenzo Valla (come Pietro Martire) non si limitano a trasformare il viaggio di Colombo in una poesia che ripete, secondo una linea di colonialismo «epico», l’approdo di Enea sul litorale laziale. Nel descrivere le differenze di linguaggio tra la regione di Veragua (tra Panama e Costa Rica) con l’Española (la prima colonia fondata da Colombo nelle Antille), egli afferma chiaramente che la maestosa e veneranda antichità della lingua classica non può esprimere la realtà nuova. Un’apertura che arriva a monumentalizzare la difficoltà di comunicazione, come mostra l’origine del nome Yucatan, che significa, in realtà, «non capisco» e che i «Nostri» – dice Pietro – intesero come nome della regione.
Françoise Waquet ha parlato, in un bel libro di più di vent’anni fa (Latino, Feltrinelli), di un impero del segno con riferimento al suo uso fin dentro il ventesimo secolo, facendoci notare giustamente che il declino dello studio del latino rischia di precluderci l’accesso alla conoscenza e alla comprensione della storia e della società europee anche più recenti. Già questo deve far riflettere sul fatto che la battaglia culturale non può limitarsi a una difesa acritica del programma di studi del liceo classico, quanto piuttosto affrontare un problema più generale di leggibilità critica del passato, vicino e lontano, cronologicamente e geograficamente. Allo stesso tempo, questo decentramento suggerisce di valorizzare la verità per cui, al crollo dell’Impero Romano, la contraddittoria trasformazione del latino in lingua «seconda» (L2 direbbero i linguisti), appresa scolasticamente e non parlata in maniera omogenea, trasforma la latinità in un enorme territorio di sperimentazione e di traduzione culturale. La letteratura diventa uno strumento continuo di negoziazione e compromesso proprio in ragione del suo essere lingua di arrivo di continua traduzione. L’approccio funziona sul piano folklorico-popolare, perché i chierici hanno portato alla ribalta l’enorme serbatoio culturale, narrativo e simbolico non romano (più o meno barbarico) addomesticandolo certamente, ma anche trasformando l’opera letteraria colta in un compromesso nuovo e in un discorso costruito in maniera ibrida, avvicinabile alla letteratura della migrazione.
Si potrebbero fare numerosissimi esempî. Possiamo pensare all’immaginario veicolato da Paolo Diacono, che alla corte dei vincitori carolingi e da cristiano, racconta l’epopea perdente dei longobardi senza rinunciare a travasare nel discorso storico, e nell’immaginario occidentale, il muoversi superstizioso degli dèi del suo popolo, fin da quella Freia, moglie di Odino, che suggerisce lo stratagemma delle lunghe barbe per sconfiggere i Vandali. Prendiamo di nuovo il Merlino di Geoffrey, figlio del diavolo e di una principessa, figura di bardo che trasfigura l’immagine del chierico e dell’asceta dando origine a sua volta a una lunghissima filiazione letteraria volgare (e medievalistica).
C’è dunque un andirivieni tra il latino-ierocratico e il non-latino-volgare che si costruisce come una battaglia di egemonia. Wim Verbal, nel suo capitolo, guarda all’emergenza delle lingue volgari non come una trionfale affermazione (secondo un disegno storiografico di impianto nazionalistico) ma come la difficile storia in cui una cultura subalterna si modella sempre di più su quella vincente. Così farà Dante con il De vulgari eloquentia: concepirà per la prima volta la superiorità del volgare italiano esprimendola paradossalmente in latino e secondo una grammaticalizzazione anch’essa tutta latina. D’altra parte, Ludwig Traube, primo cattedratico della disciplina nel 1902, intuì felicemente che il latino medievale si poteva descrivere nei termini di una lingua «paterna» il cui ruolo, di fronte alle lingue materne e alle culture altre, è stato creativo e conflittuale, e quindi meno univoco di quanto abbia voluto vedere l’Umanesimo.
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