«Le università più periferiche sono in pericolo»

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I movimenti chiedono un aumento dei fondi per il finanziamento del sistema universitario. Un’università centralizzata esclude chi non può trasferirsi, ma allo stesso tempo concentra gli studenti in poche città rendendole troppo costose: scarseggiano gli alloggi e i prezzi degli affitti aumentano

Riprendono in tutta Italia le assemblee precarie degli universitari, in risposta alla nuova finanziaria e al decreto legge Bernini. Ne sentiamo parlare da mesi e se ne è molto discusso anche su Domani. Ci sono i nuovi contratti, che acuiscono la già forte precarietà, e ci sono i tagli, che secondo il collettivo RiStirike (Coordinamento nazionale precariə della ricerca) ammontano a 1,3 miliardi in un triennio e andranno a influire pesantemente sulle assunzioni, neutralizzando i benefici del piano straordinario di assunzioni previsto dalla legge 79 di Draghi.

Insomma, la situazione è critica e per questo i movimenti chiedono un aumento dei fondi per il finanziamento del sistema universitario (FFO) e la stabilizzazione dei precari. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: «I finanziamenti sono vincolati, vengono assegnati in base agli iscritti, alla produzione di articoli, alla qualità della ricerca. Così però si crea un circolo vizioso: meno fondi vuol dire meno qualità e così molte università rischiano di chiudere o di essere accorpate», racconta a Domani Nicola di Mauro, assegnista dell’Università Orientale di Napoli e attivista di RiStrike.

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Per ora non cambiano i meccanismi di assegnazione dei fondi, ma se si restringe la torta gli atenei a rischio aumentano. Secondo Luca Scacchi di Cgil «nel 2026 il 60 per cento degli atenei, 40 su 67, non saranno in grado di chiudere i bilanci. Se non aumentano le risorse pubbliche, che sono già di mezzo punto di Pil sotto gli standard europei, l’unica soluzione è alzare le tasse. Tasse che sono già molto più alte che altrove e allontanerebbero ancora di più gli studenti». Ad essere in pericolo non sono necessariamente le università più piccole ma quelle più periferiche, spiega Scacchi. Sulla ricerca per esempio contano molto gli interventi di privati come le fondazioni bancarie, per esempio Fondazione San Paolo in Piemonte. Le fondazioni però si concentrano sul proprio territorio e in aree con un sistema bancario meno solido queste sovvenzioni non ci sono. Lo stesso vale per le Regioni o altri enti locali che intervengono a seconda delle proprie disponibilità.

Inoltre, osserva sempre Scacchi, «queste regole hanno prodotto nel tempo università sempre meno attente ai corsi serali e agli studenti lavoratori, che non si laureano in tempo e dunque portano meno soldi».

C’era già stata una grossa riduzione di sedi fra 2009 e 2011 nella stagione dei tagli Tremonti/Gelmini, con. Oggi fra i poli in difficoltà c’è l’Università di Siena, che ha già emesso un decreto per bloccare l’assunzione di personale per tutto il 2025, compreso chi ha già vinto un concorso. Si ripartirà nel 2026, se ci saranno le condizioni. Altri atenei semplicemente non apriranno nuovi bandi.

Il dibattito si è polarizzato sull’opportunità o meno di aiutare poli più deboli anziché finanziare le eccellenze italiane e renderle più competitive e internazionali. Le domande da porsi in realtà sono altre. Vogliamo un sistema universitario diffuso o centralizzato? Pochi atenei eccellenti, frequentati solo da chi abita in città o da chi può permettersi di essere fuori sede? Oppure tanti poli universitari su tutto il territorio in modo che anche chi non può spostarsi a Milano, Roma, Napoli abbia la possibilità di laurearsi e di contribuire alla ricerca? Un’università frequentata solo da chi si laurea in tre anni, o anche da studenti lavoratori? Una pluralità di centri decisionali e quindi di impostazioni della ricerca e dell’insegnamento oppure pochi poli e poca biodiversità?

Se ci prendiamo un momento per rispondere a queste domande ci rendiamo conto di come le risposte che ci diamo abbiano a che fare con la nostra visione del mondo. Queste stesse risposte portano anche a conseguenze profondamente diverse sul territorio e su altri aspetti della vita del paese. Un’università centralizzata esclude chi non può trasferirsi, ma allo stesso tempo concentra gli studenti in poche città rendendole troppo costose: scarseggiano gli alloggi e i prezzi degli affitti aumentano, così erano nate le proteste delle tende a Padova. È per questo che, ci racconta Nicola Di Mauro, le proteste del 20 dicembre scorso (i contro-stati generali, in opposizione agli Stati Generali della Crui a Montecitorio) hanno visto una forte e sentita convergenza di movimenti universitari, per la casa e contro la turistificazione.

Centralizzare significa anche separare i luoghi del paese deputati al sapere e al fare. «Ogni volta che il sapere e il fare si separano, lo spazio della libertà va perduto» scriveva Arendt nel 1963. Capiamoci: è già così. Ma i tagli all’università possono acuire questa separazione. Al contrario, tornare a investire sulle università – ed è importante usare il plurale – vuol dire investire sulla biodiversità del pensiero e della ricerca da cui germogliano le grandi eccellenze e le grandi scoperte. Ciò che mina una buona qualità dell’insegnamento universitario e un buon avanzamento della ricerca non è certo seminare i poli universitari su tutto il territorio italiano. Piuttosto è costringere chi fa ricerca a occuparsi più di burocrazia che di ricerca con orizzonti temporali troppo ristretti perché la ricerca stessa arrivi a compimento e l’insegnamento sia fertile e non provinciale. Se i contratti per i ricercatori più giovani – quindi più freschi, più calati nel presente, più propensi a “scoprire” qualcosa di nuovo o di diverso – ecco se questi contratti durano uno o due anni è quasi impossibile che si trovi il tempo, sia in termini di qualità che in termini di quantità, per fare un lavoro non solo buono ma anche significativo.

In ogni caso le proteste continuano, dall’Università di Padova è partito un appello per costruire un movimento nazionale in difesa dell’Università pubblica e la prossima assemblea nazionale è prevista pe il 7 e 8 febbraio a Bologna. Continuiamo a seguire da vicino perché la forma, la libertà e l’accessibilità dell’università di un paese ha molto a che fare con la forma, la libertà e l’accessibilità del paese stesso, quindi riguarda tutti.

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