Nel 2020, nei mesi più bui della pandemia, quando Louise Glück vinse il Nobel per la letteratura, la medaglia le venne recapitata a casa sua, a Cambridge nel Massachusetts. Una foto all’aperto la ritrae mentre mostra la medaglia con una mascherina nera sul volto, non proprio chirurgica, semitrasparente. C’è qualcosa di rivelatore in quell’immagine. Louise Glück (da pronunciare Glick) è stata celebrata in vita come pochi poeti americani. Non ha mai voluto onori ma ha sempre avuto il buon gusto di non rifiutarli. Come dice nel suo discorso per il Nobel, che non ha potuto pronunciare a Stoccolma, non ha mai apprezzato «né i poeti da stadio né i poeti che parlano a se stessi». Non è mai stata veramente popolare, eppure il suo è l’inglese di tutti i giorni. La sua poesia è semitrasparente, come la maschera che indossa in quella foto.
È mancata nel 2023 e Una vita di paese, uscito nel 2009, è stata una delle sue ultime raccolte. L’ha pubblicata da poco in italiano Il Saggiatore (pp. 192, € 17,00) nella traduzione di Massimo Bacigalupo, non l’unico traduttore di Louise Glück, ma certamente il più fedele. Ogni poesia, una volta passata la soglia, fa accedere a una dimensione priva di orientamento nel tempo. Non è un libro sulla morte, benché la morte venga spesso nominata, quanto forse un libro della morte, che la morte stessa potrebbe scrivere, se avesse voglia di soffermarsi sulla strana eccezione della vita. In superficie è un esercizio di poesia pastorale, sembra venire da un secolo che non c’è mai stato, scorrendo le pagine ci si dimentica che appartiene ai nostri anni. Ma non vi si trova nessuna nostalgia, niente che la memoria debba ricostruire o rimpiangere. A Village Life è la costruzione di uno spazio chiuso, interamente controllato dalla sua creatrice. Lo si legge abitandolo, con la confortevole certezza di stare in una prigione tanto vasta quanto protettiva. Oltre le colline ci saranno forse barriere a impedire la fuga, ma il lettore non le vede. Soltanto uno tra i prigionieri, la donna che compare in Marzo, ha provato a fuggire. Ma è dovuta tornare e il suo linguaggio ora si limita ad articolare avverbi («mai» e «solo») per esprimere la convinzione «che la vita l’ha imbrogliata».
A volte sembra di trovarsi in Pleasantville, il film di Gary Ross (1998) ambientato nella piccola città di una sitcom anni Cinquanta. Per esempio, in Affluenti, la scena si svolge in un giorno d’estate, intorno alla fontana nel centro della piazza: bambini che corrono, mamme moderatamente preoccupate, fidanzati che scherzano non sapendo che cosa il futuro ha in serbo per loro, ombre di uomini sempre al lavoro come anche donne sempre stanche e mariti sempre arrabbiati, ma non ci sono automobili, non c’è rumore, non c’è né radio né televisione. Tutto potrebbe accadere in un aldilà che è solo la continuazione della vita terrena, così come se lo immagina il cristianesimo evangelico. Ma non ci sono nemmeno razze, etnie o differenze, e molti componimenti sono scritti da un punto di vista maschile. Potremmo essere in un Truman Show o in quell’altro strano film che è The Village (M. Night Shyamalan, 2004), ma non serve saperlo, l’America è già la Matrix di tutte le matrici.
Avviene qualcosa, in questo eterno non-luogo, raccontato con la precisione di uno scalpello? Saremmo fuori strada se cercassimo paragoni facili con l’Antologia di Spoon River (più nota in Italia che in America peraltro), perché in Una vita di paese la morte non è la morale della vita. Non c’è niente da riassumere, non c’è niente da concludere, le gesta dei personaggi sfuggono al giudizio, non sono un’epigrafe, sono solo un romanzo che è meglio condensare in poche pagine. Perché nel romanzo c’è il rischio, comune a molti scrittori americani, ma non ai poeti come Louise Glück, che la disperata ricerca di realismo crei una mappa talmente dettagliata da sostituire il territorio. In Una vita di paese non si corre questo rischio. L’autrice segna dei punti e li connette con linee; alla fine del verso la linea si spezza e cambia direzione.
In Nel caffè descrive un Don Giovanni tanto triste quanto lucido, che non solo si innamora delle donne che incontra, ma anche della loro vita quotidiana, alla quale si appassiona molto di più di quanto mai farebbe un marito, così che quando le lascia, passata la delusione sembra loro di essere state in compagnia di una donna, «ma senza il rancore, l’invidia, / e con la forza di un uomo, la lucidità mentale di un uomo».
Sono versi da citare, senza ignorare la loro ironia, a chi considera Louise Glück un’odiatrice di uomini per via di versi passati, non proprio teneri verso la vita coniugale. È vero però che gli uomini nella sua Pleasantiville non se la passano bene. Il solitario di Stanchezza ha concluso che «dell’amore non resta nulla, / solo indifferenza e odio». In Cacciatori leggiamo che, a letto, «i gemiti d’amore soffocano i gridi delle carogne». (Questo, peraltro, mi sembra l’unico momento in cui l’impeccabile traduzione di Bacigalupo pigia sul testo. Si tratta di animali uccisi, ma l’originale dice corpses, cadaveri). In Al fiume, che è un racconto d’iniziazione alla vita, la scoperta di un piacere che piacere lo è raramente trova nel vino il suo contraltare. Il vino è un piacere sempre, come la figlia scopre quando capisce perché il padre la sera beve da solo, e forse è la prima volta che lo vede davvero, perché adesso sa che cosa gli manca.
In una poesia intitolata Pipistrelli (ce ne sono due con lo stesso titolo), Glück ci dà, con il termine latino via negativa, una chiave di lettura semi-teologica della sua intera visione. Il suo modo di celebrare la vita sta nel guardarla, appunto, per viam negativam, dal punto di vista della morte. Come dice in Marzo, «niente può essere costretto a vivere». Allo stesso modo, si potrebbe dire, niente viene «costretto» a morire. La morte non sopravviene alla vita; è lo stato primario sul quale la vita, per breve tempo, si erge. L’unica utopia di Louise Glück è l’entropia. In Raccolto (con un lontano riferimento al mito di Persefone che le è caro) troviamo: «Ciò che vive vive sotto terra / Ciò che muore, muore senza resistere». O in Solitudine: «Niente dimostra che io sia in vita». No, la vita non si dimostra; ciò che si mostra è «solo la pioggia, la pioggia non ha fine». Il paese di Louise Glück è quell’ignoranza della morte che chiamiamo vita.
Eppure, non abbiamo mai la sensazione che queste poesie siano contaminate da nichilismo e disperazione, entrambe definizioni troppo precise. Qui tutto galleggia, tutto sprofonda e ritorna. Non c’è ragione di disperare né di aspettarsi un miglioramento. Che cosa ci sarebbe mai di meglio? Se mettiamo tra parentesi speranze e paure, e se vogliamo seguire fino in fondo la fredda determinazione, la straordinaria, chirurgica pulizia dei versi di Louise Glück, possiamo solo accompagnarla fino all’ultimo verso del libro, quando conclude che «nel giorno di mercato, vado al mercato con le mie lattughe».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link