In poche ore Milano è una trappola, si circola solo in metro. Una coltre ghiacciata alta quasi un metro: una sfida impossibile anche per l’ostinata efficienza della capitale economica. Crollano palazzetto e velodrono
Il bollettino di guerra cominciò dalle pagine del quotidiano La Notte fin dall’edizione delle 13 di lunedì 14 gennaio 1985. Più che una guerra, era ancora una scaramuccia: «Trenta centimetri di neve, ma la città non si ferma», tracciava un bilancio rassicurante il giornale pomeridiano, dopo le prime 24 ore di nevicata ininterrotta sulle superbe guglie del Duomo. Roma, invece, si era paralizzata sotto una sfarinata di dieci centimetri, sorridevano impietosi i lettori milanesi.
I trenta centimetri, però, triplicarono durante le cinquanta ore successive. Divennero una coltre ghiacciata alta quasi un metro, lanciando una sfida impossibile anche per l’ostinata efficienza della capitale economica. E, dalle vette della sua superiorità, l’orgoglio ambrosiano sprofondò nel fondovalle dello stupore: la metropoli aveva smesso di funzionare.
«Un fiocco di neve (si fa per dire) è entrato nei circuiti, ha fatto contatto e il grande computer-Milano, il meraviglioso flipper-città è andato in tilt» commentò in corsivo Arnaldo Giuliani, capocronista del Corriere della Sera.
In poche ore Milano stava diventando una trappola per le automobili, imprigionate nei box o nei parcheggi; per gli autobus, che rischiavano il testacoda a ogni frenata; per i tram e per i treni, con gli scambi dei binari bloccati. Circolava soltanto, affollatissima, la metropolitana: linea 1 e linea 2, le altre ancora non esistevano.
Martedì 15 gennaio, arrivare a scuola o al lavoro, restava per molti una questione di puntiglio. Nelle vie del centro apparvero scarponi e Moon Boot; ai parchi e sui viali, le ciaspole e gli sci da fondo. In compenso, da negozi e autofficine, scomparvero le catene per pneumatici. E, dai supermercati, farina, zucchero e scatolame.
Lo stato d’animo milanese era ancora forte: «Sembra simile a quello che si manifestò nelle famose domeniche a piedi al tempo della crisi energetica — scrisse Luca Goldoni, editorialista del Corriere —: e cioè quella carica di serenità che viene dall’affrontare le difficoltà insieme». Applaudiva insoliti slanci di solidarietà: «Normalmente, se uno ha una gomma a terra, nessuno lo degna di uno sguardo. Ma se è piantato con la macchina nella neve, si fermano a spingerlo anche i pensionati e le signore in pelliccia con i doposci a zampa di yeti».
La prese con spirito anche Sophia Loren che quel giorno avrebbe dovuto volare da Ginevra a Milano e si ritrovò bloccata per ore nella steppa dalle parti di Domodossola, senza nemmeno il conforto della carrozza ristorante, in attesa di un accelerato: «Intanto vedo arrivare una locomotiva che sembra uscita dal Dottor Zivago, tutta un ghiacciolo, non so come facessero a guidarla sotto la neve» raccontò all’arrivo, divertita dallo stupore dei compagni di viaggio per la sua presenza in seconda classe.
Mercoledì 16 gennaio raggiungere Milano era ormai un’impresa eroica, ma disperata, cui aveva rinunciato la maggioranza dei seicentomila pendolari. «Milano mai così disastrata» titolò La Notte al terzo giorno di chiusura di Malpensa e Linate. L’hinterland era una tundra inaccessibile perfino ai mezzi di soccorso, quando scoppiavano tubi dell’acqua o collassavano impianti di riscaldamento. L’umore della cittadinanza cambiò.
Quarant’anni fa le valvole di sfogo del tribunale popolare non erano i social, erano i centralinisti dei giornali. Non c’era la app dell’Atm, c’era il passaparola, sebbene poco efficace in assenza dei cellulari. E, a proposito di comunicazioni fuori uso, e di telefonini di là da venire, un diligente autista della linea 60 fu segnalato da una lettrice alla pietà dei cronisti: era impantanato da 13 ore con il suo bus in via Cimarosa in attesa di istruzioni (più probabilmente, dimenticato) dalla centrale operativa, ma fedele all’ordine di non abbandonare, per nessun motivo, il suo mezzo. La vittima più commemorata è il Palazzo dello sport, scoperchiato dal peso di oltre 800 tonnellate di neve e acqua, così come il velodromo Vigorelli e le scuderie del Circo Togni.
Quando giovedì 17 iniziarono il disgelo e, quindi, gli allagamenti arrivò anche la resa dei conti con l’esausto e rassegnato sindaco Carlo Tognoli, con l’Amnu, l’azienda della nettezza urbana, e con l’Atm, i cui vertici si rimbalzavano le responsabilità per la penuria di spazzaneve, braccia e sacchi di sale e ghiaia. Molte ruspe erano state spedite in aiuto a Roma la settimana prima, i duemila «angeli della neve» che avevano risposto al bando comunale per avventizi erano in buona parte latitanti.
Il prefetto, Enzo Vicari, aveva chiamato i rinforzi: qualche carro armato, 500 reclute del terzo Corpo d’armata e 150 allievi ausiliari del Terzo raggruppamento Celere, oltre ai carabinieri. Naturalmente non erano bastati per i 1400 chilometri di strade urbane da sgomberare. Quella nevicata del 1985 se la ricordano senz’altro anche 250 ex studenti dell’Istituto tecnico Moreschi arruolati dal loro preside, Sandro Aldisio, che recuperò dalla cantina della scuola centinaia di attrezzi depositati dal Comune, in perenne debito di spazi, e si mise alla testa del suo esercito di spalatori.
Quasi certamente, non è un brutto ricordo.
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