Il futuro degli Atenei italiani continua a prospettarsi fosco, se non proprio cupo, specialmente per tutte quelle figure professionali che, pur rendendone possibile l’attività didattica e di ricerca, risultano precarie e non stabilizzate. Giova ricordare, come premessa a ogni analisi che, a oggi, circa il 40% del personale universitario è costituito da figure precarie (20mila assegnisti di ricerca, e 9mila ricercatori a tempo determinato di tipo A)
di Rolando Vitali, docente Unibo
Questo è il risultato di un lungo processo di definanziamento e di precarizzazione del lavoro universitario, che ha subito una prima accelerazione con la riforma Gelmini attraverso una moltiplicazione delle figure di ricerca nel preruolo (assegnista, ricercatore a tempo determinato di tipo A (Rtd-A) e di tipo B (Rtd-B). La riforma attuale ritorna a moltiplicare le figure del preruolo dopo la parentesi istituita dalla legge 79/2022 che aveva accorpato le due figure Rtd-A e Rtd-B in un’unica tipologia di ricercatore a tempo determinato in tenure track (Rtt), che dopo cinque anni permetteva l’accesso alla posizione di professore associato.
Peccato che questa riforma, stante una riduzione delle forme di precariato, non inserendo risorse aggiuntive e adeguate alle necessità degli atenei, rischiava di fatto di tradursi in un collo di bottiglia con una drammatica riduzione dei posti messi a bando da parte delle università. La riforma Bernini si inserisce in questo contesto, riportando indietro le lancette dell’orologio e riproponendo una pletora di diverse figure di ricercatore pre-ruolo che, unitamente a una riduzione delle risorse programmate, comporterà un ulteriore consolidamento del precariato strutturale nell’università italiana.
Con il disegno di legge 1240 del 2024, il Governo prevede complessivamente sei diverse figure di ricercatore: oltre al già esistente “contratto di ricerca” (legge 79 del 2022) si prevedono infatti anzitutto contratti di collaborazione da parte di studenti che possono essere realizzati già durante il corso di laurea, mentre si introducono due tipologie di borse di assistente alla ricerca: una junior, destinata ai laureati magistrali, una senior per i dottori di ricerca.
Viene poi introdotto un contratto “postdoc” e viene introdotta la figura dell’adjunct professor che, pur sovrapponendosi di fatto alla figura del professore a contratto, potrà essere chiamato a svolgere nelle università attività di didattica, ricerca e terza missione senza concorso, ma su nomina del rettore e su proposta del senato accademico. Come previsto anche dalla riforma precedente, la presente prevede ovviamente che tutti i nuovi contratti andranno stipulati sulla base del vincolo di spesa del triennio precedente. Ma oltre alla precarizzazione formale delle nuove figure di ricercatore la riforma prevede, nonostante le continue smentite del ministero, tagli consistenti al Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo): 513 milioni di euro in meno, a cui se ne aggiungono altri 250 per il mancato adeguamento degli stipendi, oltre a ulteriori tagli pianificati per i prossimi anni.
La legge di Bilancio 2025 prevede infatti non solo il blocco del turnover per il 75% – con restituzione all’erario del restante 25% – ma anche oltre 700 milioni di ulteriori tagli nel prossimo triennio ai fondi del Ministero dell’Università e della Ricerca. A fronte di queste prospettive, nonostante un bilancio preventivo per 2025 che vede stanziate risorse per un totale di quasi 1,1 miliardi di euro (+196 milioni di euro e +21,3%, rispetto al triennio 2022-2024), il rettore dell’Università di Bologna Giovanni Molari ha espresso preoccupazione, dal momento che «il diverso assetto del Ffo per il sistema universitario, ha determinato riduzioni pari a 62 milioni di euro nel triennio» a venire: ciò significa, concretamente, che «la gestione attuale del bilancio non sarà sostenibile nel lungo periodo».
Dinanzi a questa situazione, dispiace che la Conferenza italiana dei rettori (Crui) non abbia raggiunto una posizione unitaria capace, se non di fermare e invertire la direzione di questa riforma, quantomeno di segnalare con forza le problematicità strutturali dell’università e il carattere regressivo della riforma. Dopo l’iniziale espressione di preoccupazione per i tagli previsti, in fase di audizione al senato la Crui ha sancito di «accogliere con favore il Ddl S.1240, riconoscendone il potenziale per valorizzare la ricerca».
Un’ulteriore conferma dell’adesione da parte della comunità dei rettori per la riforma si è avuta qualche giorno fa con l’abbraccio tra la ministra dell’Università e Ricerca, Annamaria Bernini, e la presidente della Crui (Conferenza dei rettori), Giovanna Iannantuoni, durante gli Stati Generali dell’Università lo scorso 19 dicembre. «Dobbiamo cambiare, rivoluzionare tempi e modi di come finanziare le università e su questo, con la ministra Bernini, siamo allineatissime» ha affermato Iannantuoni. La pensano diversamente i lavoratori e le lavoratrici precarie della ricerca che, in questi ultimi mesi, stanno cercando faticosamente di avviare forme di organizzazione, informazione e resistenza davanti a questa ulteriore e drammatica riforma. Dopo una prima assemblea nazionale lo scorso 25 ottobre, che ha riunito diverse associazioni come Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca), Link, Arted, Primavera degli studenti, Flc Cgil e Uds, le mobilitazioni sono continuate il 20 dicembre con gli “stati di agitazione delle università”, sempre a Roma.
Al contempo 122 società scientifiche hanno firmato un appello per denunciare i «rischi di ridimensionamento della ricerca», mentre in tutta Italia, da Torino a Milano, da Roma a Napoli si sono formate assemblee permanenti dei lavoratori precari e nuove reti di coordinamento tra atenei, come a Palermo o a Padova. In diversi contesti si assiste alla nascita di nuove reti tra associazioni universitarie (Andu, Rete 29 aprile, Adi), dei precari della ricerca (Restrike, 90%, Arted), studenti (Udu, Link, primavera degli studenti) e sindacati (Flc Cgil, Clap). Anche nel nostro ateneo è nata l’Assemblea Precaria Universitaria Bologna, i cui lavori hanno già portato a qualche risultato: lo scorso 17 dicembre, il senato accademico dell’Unibo ha approvato a larga maggioranza la mozione presentata da ricercatori e ricercatrici precarie contro la riforma Bernini del pre-ruolo e contro i tagli al Ffo.
Un primo passo, ma significativo a dimostrazione che solo l’organizzazione, l’informazione e la mobilitazione di chi vive e lavora nell’università possono iniziare a invertire la tendenza decennale che sta portando a una situazione sempre più drammatica l’intera università italiana.
L’articolo è stato realizzato per Cubo-Rivista del circolo Università di Bologna, diretta da Massimiliano Cordeddu.
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