De-privatizzazione. Come Putin sta rifondando l’Unione Sovietica

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L’idea fissa di ricostituire l’Unione Sovietica, che alberga ormai da anni nella scatola cranica di Vladimir Putin, si sta realizzando non solo con la conquista di circa un quinto del territorio dell’Ucraina, che ha buone possibilità di essere acquisito (almeno nel breve termine), ma anche con lo stravolgimento delle regole di un’economia di mercato, che sta trasformando il mercato russo in una realtà ibrida, dove convivono meccanismi tipici dell’economia occidentale (vedi la politica monetaria della Banca centrale russa, tutta tesa a contrastare l’inflazione, sebbene con misure abnormi, come un tasso di interesse del 21%), con metodi che sembrano presi pari pari dall’economia pianificata, termine elegante per definire il sistema economico comunista, i cui risultati pratici (oggi dimenticati da chi li ha vissuti) consistevano nella messa a disposizione dei cittadini sovietici di pochi (e modesti qualitativamente) beni di consumo, e di servizi basici, funzionali solo alla sopravvivenza (es. il riscaldamento domestico, gratis all’epoca dell’Urss, ed oggi pari a 150 euro l’anno per appartamento, tariffa che comprende anche acqua fredda e calda).

Un primo fenomeno di questa riconversione del sistema economico russo si chiama “de-privatizzazione”, termine utilizzato dal quotidiano economico russo Kommersant, con un articolo di Diana Galieva, uscito il 27 dicembre 2024, per rappresentare il processo di nazionalizzazione, ossia di acquisizione (forzata) di imprese private, che così entrano nell’ambito del controllo pubblico.

Il fenomeno è partito dopo l’avvio del conflitto con l’Ucraina, con l’espropriazione degli asset industriali e commerciali delle aziende dei paesi non amichevoli (ossia Usa, Ue, Giappone), che avevano applicato sanzioni contro la Russia, gli esponenti del regime, gli oligarchi, e ad un numero crescente di aziende russe.

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L’espropriazione è stata effettuata con gli strumenti del diritto, ossia norme che, pur astruse, contradditorie e prive di ogni fondamento logico-giuridico, cercavano di mantenere una parvenza di stato di diritto.

Il primo meccanismo si basa su uno sconto obbligatorio del 60% sulla vendita dagli asset russi di proprietà di aziende occidentali, e su un contributo ulteriore al bilancio russo (pari al 35% del valore dell’asset), percentuali che consentono ai proprietari occidentali di uscire dal mercato russo con appena il 5% del valore delle loro aziende.

Un altro meccanismo è la dichiarazione, da parte delle autorità russe, che un’azienda è un’Organizzazione economicamente significativa (EZO – Экономически Значимых Организаций). Quando viene dichiarata che una società è EZO, gli azionisti stranieri vengono rimossi dalla gestione aziendale, e possono solo sperare di ricevere un modesto compenso per il valore dei beni confiscati. Infatti, la procedura si conclude con “la vendita di beni a persone russe di fiducia (leggi, amici dei potenti, ndr), in accordo con la commissione legale per gli investimenti”, come spiega Kommersant.

Per questo motivo, secondo Daria Smolina, project manager della società di consulenza di Nasonov Pirogov, intervistata dal quotidiano economico russo, le aziende straniere spesso scelgono di non vendere le attività, ma di lasciarle come passività, minimizzando le azioni sul mercato russo, mentre per altri operatori economici occidentali l’uscita dagli asset presenti in Russia rimane una decisione strategicamente necessaria, costi quel che costi.

Ad approfittarne è la Cina, che però non investe sulla capacità produttiva in Russia, bensì in quella commerciale, per “arraffare rapidi profitti”, fermo restando che “i rischi di sanzioni e un contesto imprenditoriale instabile frenano gli investimenti [esteri]”, come si legge testualmente nelle pagine del quotidiano di Mosca.

Il nuovo concetto di regolamentazione, come si apprende sempre dalle pagine di Kommersant, si riduce alla formula “o le aziende lavorano in buona fede, oppure la partecipazione dello Stato è prevista, prendendo decisioni su misure speciali”. Il problema è che non esistono criteri chiari, e le decisioni vengono prese caso per caso, per cui è impossibile valutare la ridistribuzione delle risorse produttive nel mercato russo.

In questo contesto si inserisce la circostanza che, come segnala lo stesso Kommersant, questi meccanismi sono ora utilizzati da Putin e i suoi accoliti anche nei confronti dei beni delle imprese russe, che hanno la colpa di appartenere a soggetti non perfettamente in linea con il pensiero unico dominante in Putinlandia.

Si legge, infatti, nel pezzo di Galieva, che “i processi di separazione tra ‘amici e nemici’ non potevano rimanere nel circuito esterno, quindi il processo di ‘nazionalizzazione graduale’ delle attività estere ha colpito anche le aziende russe”, e che “il processo di ridistribuzione dei beni nell’economia tra proprietari ‘sbagliati’ e proprietari ‘fedeli’ ha accelerato, ma le regole del gioco non sono state definite”.

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In pratica, lo Stato russo si appropria anche di quelle aziende russe, i cui proprietari vengono considerati “inaffidabili” o “spregiudicati”, per usare i termini impiegati dalla giornalista.

Il sequestro dei beni privati da parte dello Stato è diventato la regola anche nei casi di corruzione. Secondo le stime della Procura generale della Federazione russa, il valore totale dei beni confiscati ha superato nel 2024 1 trilione di rubli, ossia 10 miliardi di euro, che corrispondono al 25% della spesa pubblica russa del 2025 (che è esplosa con le spese militari). E secondo gli esperti “il processo di de-privatizzazione continuerà”.

Di tutto questo se ne sono resi conto anche gli imprenditori sudditi di Putin, i quali, come riconosce la giornalista di Kommersant, “entreranno nel 2025 senza regole del gioco chiare”, e se è vero che “le condizioni esterne imprevedibili sono integrate nei modelli di business”, è altrettanto vero che “gli imprenditori russi richiedono una certezza interna … [a cominciare dalla] sicurezza dei beni nelle mani dei proprietari ancora legali, [che] non è garantita”.

La conclusione del quotidiano Kommersant è che “a causa delle particolari condizioni di sviluppo dell’economia russa negli ultimi due anni, nel paese è stata creata una nuova regolamentazione aziendale basata sui termini ‘temporaneo’ e ‘forzato’, ma i risultati a lungo termine di tale regolamentazione cambiano la struttura dell’economia russa”.

La questione è così importante che è stata messa all’ordine del giorno dell’incontro pre-capodanno dell’Unione russa degli industriali e degli imprenditori con il presidente Putin, ma pare che quest’ultimo faccia orecchie da mercante, tutto preso dalla sua funzione ‘storica’ di rifondatore dell’Urss.

Tanto è vero che il quotidiano economico russo conclude che “ripristinare un contesto imprenditoriale prevedibile e l’attrattiva degli investimenti nella Federazione Russa non è un compito per il 2025”.

Non solo i cittadini-sudditi dello zar Vladimir I, ma anche gli imprenditori russi si sentono impotenti, e questo conferma che il regime putiniano, con tutta probabilità, potrà crollare solo da una sollecitazione esterna, e non interna.

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