In Italia 24 milioni di pazienti cronici e l’invecchiamento della popolazione fa crescere la non autosufficienza. Mentre il welfare arranca

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Le malattie croniche non trasmissibili sono la principale causa di morte nel mondo e l’Italia non fa eccezione. Anzi, essere il secondo paese più anziano di tutti ci rende molto vulnerabili a queste patologie, che impattano fortemente sulla qualità di vita dei pazienti e che sono responsabili dell’85% dei decessi complessivi in Italia. Diabete, cardiopatie, ictus, malattie respiratorie, tumori: sono 24 milioni gli italiani affetti da una o più malattie croniche, il 41% della popolazione. Per il trattamento di questi pazienti, il nostro sistema sanitario spende ogni anno più di 65 miliardi. L’obiettivo per queste persone non è la guarigione, ma la riduzione dei sintomi e la prevenzione della disabilità e della perdita di autonomia. Anche perché lo Stato non è in grado di affiancare tutte le famiglie che hanno a carico un anziano non autosufficiente: sono quattro milioni in Italia e solo uno su tre è raggiunto (male) dal welfare pubblico, rovesciando sui caregiver l’onere fisico, emotivo ed economico dell’assistenza.

Senza ripensare gli attuali modelli di gestione, denunciano osservatori e società scientifiche, nei prossimi anni sarà impossibile fronteggiare i bisogni di una popolazione sempre più anziana e fragile. E prevenire l’insorgere di ulteriori disuguaglianze. La salute dei pazienti cronici, infatti, è fortemente influenzata da fattori socio-economici, come il livello di istruzione, la condizione lavorativa o la regione di residenza: il manager sta meglio dell’operaio; chi ha un lavoro gode di migliore salute del disoccupato; il cittadino del nord è meno vulnerabile di quello che vive nel meridione. Gli ultimi dati Istat rivelano che solo il 22% dei pazienti cronici over 65 con licenza elementare si considera in buona salute, contro il 43% dei laureati. La scarsa alfabetizzazione sanitaria, spesso legata a livelli di istruzione più bassi, limita l’aderenza alle terapie e l’accesso ai percorsi di cura. Inoltre, i pazienti, spesso anziani o molto anziani, si trovano frequentemente a dover affrontare da soli (o in coppia) la malattia. Una condizione che rende difficile la gestione delle terapie domiciliari, soprattutto se aggravata da fragilità socio-economiche.

Come sottolineato dall’ultimo rapporto Oasi, il trend demografico epidemiologico e sociale indica un aumento molto rilevante del fenomeno della non autosufficienza nei prossimi anni, già a partire dal 2030. L’invecchiamento della popolazione sposta sempre di più i bisogni dalle acuzie alle cronicità, richiedendo un approccio integrato che unisce dimensioni sanitarie e socio-assistenziali. Questo, sottolineano gli esperti, implica la necessità di riorganizzare i servizi. L’obiettivo deve essere quello di riuscire a gestire alcune patologie – come per esempio diabete, asma e malattie polmonari croniche ostruttive – attraverso percorsi di cura territoriali dedicati, riducendo le inutili ospedalizzazioni che aggravano il Ssn. Ma la riorganizzazione della medicina territoriale prevista dal Pnrr, con al centro case di comunità e centrali operative territoriali, stenta a decollare – per non dire degli ospedali di comunità ridimensionati in sede di revisione del Piano – e le performance collegate alla prevenzione risultano in peggioramento. Questo nonostante sia un approccio estremamente favorevole per quanto riguarda il rapporto costo-efficacia nel migliorare la qualità di vita dei pazienti cronici e nel ridurre le spese a carico del Ssn.

Nonostante gli allarmi, il sistema del welfare pubblico socio-sanitario, in costante sottofinanziamento, non ha ancora affrontato la questione dell’invecchiamento del Paese. La popolazione italiana over 65 è cresciuta fino a raggiungere il 24% del totale dei cittadini. Di questi 14,4 milioni di anziani, più di un quarto – circa quattro milioni – non sono autosufficienti e necessitano di assistenza quotidiana. Ma l’indennità di accompagnamento raggiunge solo il 40% delle persone che ne avrebbero bisogno, e i servizi di welfare pubblico riescono a prendere in carico solo un anziano non autosufficiente su tre, lasciando che degli altri si debbano occupare le loro famiglie. A ciò si aggiungono significative disuguaglianze interregionali. Analizzando la disponibilità di servizi residenziali per anziani, il divario tra nord e sud è molto evidente: la migliore regione del nord ha una capacità di presa in carico di over 65 non autosufficienti maggiore del 23% rispetto alla peggiore regione del sud.

E poi c’è il problema della qualità dell’assistenza. Di quel terzo di anziani non autosufficienti che riesce a essere raggiunto dai servizi pubblici, oltre il 24% viene supportato attraverso l’assistenza domiciliare integrata (Adi). Ma, come sottolineano i ricercatori del Cergas, l’Adi è in grado di affiancare i pazienti per un numero di ore molto limitato: in media ogni caso trattato riceve all’anno solo 16 ore di Adi. Un tempo insufficiente per sgravare dal peso dell’assistenza le famiglie che spesso sono costrette a ricorrere, a spese proprie, alle badanti, regolari o irregolari, che nel 2022 in Italia hanno superato il milione di unità. Nonostante l’assistenza sociosanitaria sia un dossier centrale per il presente e per il futuro del Paese, sia da un punto di vista di salute pubblica che di sostenibilità del Ssn, le risorse sono sempre distribuite con il contagocce. La percentuale di spesa pubblica per l’assistenza a lungo termine rispetto al Pil è scesa dall’1,43% del 2020 all’1,20% del 2023. La riforma inserita nel Pnrr e tradotta in pratica con il decreto legislativo attuativo del Patto per la Terza Età, a inizio 2024, si è tradotta per ora solo in una “prestazione universale” che andrà a una piccola fetta di over 80 con redditi bassissimi.



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