Trento, il sovrintendente Giuseppe Rizza: «Il classico non è superato, serve una nuova didattica»

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di
Dafne Roat

Il tema sul futuro degli studi classici è stato al centro di un dibattito al liceo Prati: «La vera sfida di oggi è proporre contenuti e competenze in modo coinvolgente e innovativo»

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l momento della scelta per uno studente che finisce gli studi alle scuole secondarie di primo grado e si affaccia al mondo delle superiori è sempre difficile. Paura, aspettative, sogni. Un tempo il liceo classico rappresentava una meta ambita, scelta soprattutto da chi già immaginava il suo percorso universitario, oggi la spinta che arriva dalle nuove tecnologie e dalla digitalizzazione ha cambiato gusti e prospettive delle nuove generazioni. Il liceo classico ha perso un po’ di appeal, almeno stando al numero di iscritti degli ultimi anni (si vedrà quest’anno, le iscrizioni per le superiori sono aperte fino al 31 gennaio), ma ha ancora un ruolo importante all’interno del sistema. Il tema sul futuro degli studi classici nei giorni scorsi è stato al centro di un dibattito al liceo Prati, ma secondo il sovrintendente scolastico Giuseppe Rizza, al di là dei dati, la vera sfida di oggi «è proporre contenuti e competenze in modo coinvolgente e innovativo».

Gli studenti trentini iscritti al liceo classico nell’ultimo anno hanno subito una flessione del 14,11%, c’è una minor affezione alle materie classiche o la spinta che arriva dall’era digitale porta i ragazzi a scegliere altri indirizzi?
«In Trentino gli iscritti al liceo classico sono circa il 3-4%, si tratta di un bacino abbastanza definito, in altre realtà è associato ad altri indirizzi come quello linguistico e artistico e l’istruzione liceale in sé negli ultimi anni ha avuto un significativo consolidamento anche grazie alla ricchezza dell’offerta formativa che un tempo non c’era, quindi ampliando l’offerta si avranno dati diversi. I numeri che abbiamo sull’istruzione liceale in Trentino sono molto significativi».




















































Quindi non c’è una perdita di attrattività del sapere antico?
«Dalla generazione Z in poi abbiamo notato una disaffezione e un disincanto verso la cultura classica, questo è un dato che va registrato ma non significa che i saperi classici siano superati, anzi la sfida è riproporre contenuti che provengono da quell’ambito in modo innovativo, accogliendo le sfide culturali di oggi. La nostra società è sempre più caratterizzata da quello che alcuni pensatori definiscono individualismo espressivo, quindi tutto ciò che non è funzionale a questa dimensione interessa meno. Ma le discipline classiche hanno un valore».

Secondo alcuni studiosi le nuove generazioni sono meno propense al sacrificio, le ore di studio, il grande impegno e la prospettiva di un percorso universitario, praticamente obbligatorio dopo lo studio liceale, scoraggia molti ragazzi. Può essere una chiave di lettura?
«Mi sembra una semplificazione. Non vorrei che si confondesse il rigore dei saperi classici e delle discipline scientifiche, doverosi, con un’esigenza di selettività e di selezione. Resta centrale il contributo dei saperi classici al pensiero critico, alla formazione di una consapevolezza civica e allo sviluppo di competenze trasversali, ma questo non significa che i metodi finora utilizzati per fare scuola siano ancora validi. Considerata l’accelerazione della società contemporanea e la digitalizzazione, visto il cambiamento cognitivo che le nuove tecnologie comportano abbiamo forse bisogno di un diverso approccio metodologico. Questa è la vera sfida. Se c’è una crisi è quella dell’impostazione tradizionale della scuola superiore e della didattica».

Può precisare meglio?
«Un’impostazione conservatrice e tradizionalista si basa su una concezione dell’istruzione che privilegia modelli didattici non esperienziali e scarsamente dinamici. Tale visione, ancora presente in diverse realtà scolastiche, si traduce in pratiche educative che trascurano la dimensione relazionale, corporea ed emotiva dell’apprendimento. Il rischio è che il piacere di conoscere venga relegato in secondo piano, a vantaggio di un approccio meccanico e statico dell’apprendimento. In molte scuole il “programma” mantiene una centralità legata al mito del sapere enciclopedico focalizzata sulla prestazione piuttosto che sul miglioramento personale e sullo sviluppo di competenze metacognitive. Questa dinamica può diventare fonte di ansia. Oggi abbiamo bisogno di un’alfabetizzazione diversa e multipla, i nostri studenti non devono vedere la scuola come un imbuto selettivo, ma devono essere incoraggiati e motivati».

Secondo i dati Invalsi c’è stato un peggioramento degli studenti trentini che sono scivolati dal terzo posto nel 2022 al quattordicesimo nel 2024. Cosa ne pensa?
«In realtà c’è stato un calo post pandemia sugli esiti relativi alla comprensione del testo, più che nella matematica, mentre c’è stato un consolidamento della parte linguistica, ma si tratta di variazioni minime e che comunque mantengono il Trentino ai vertici dello scenario nazionale. Questi assestamenti sono fisiologici, ma serve analizzare il dato Invalsi con attenzione perché questi dati non sono un’agenzia del voto, ma una rilevazione sull’acquisizione di competenze in vari ambiti, vanno letti in modo costruttivo».

Secondo lei i social, i linguaggi e i termini mutuati da altre lingue e spesso storpiati che vengono usati dai ragazzi sulle chat non rischiano di portare a un decadimento della lingua italiana?
«È indubbio che ci sia una trasformazione della lingua e anche la modalità con cui ci si avvicina ai testi, ma ogni cambiamento tecnologico nella storia ha comportato una modificazione di tipo cognitivo con conseguenze sull’apprendimento, ma il punto è riuscire a creare una cultura del digitale, un’alfabetizzazione. Devo chiedermi come posso educare con la tecnologia, come educare i miei studenti all’uso della tecnologia, e questo è il secondo livello, poi c’è il terzo, più importante, ossia governare la tecnologia per i miei fini. Piuttosto che dividersi tra gli apocalittici e gli integrati la vera sfida è quella di interagire in modo critico e intelligente, per far questo ci serve un approccio interdisciplinare e uscire dagli steccati, da una forma mentis di scuola tradizionale».

Nonostante negli ultimi anni si sia registrata una redistribuzione delle classi sociali, i licei continuano a essere percepiti come percorso privilegiato per i figli delle classi medio-alte, lei ha parlato di fenomeni che espongono un rischio di una forte segregazione sociale negli istituti tecnici e professionali, cosa si può fare?
«Dobbiamo far sì che i nostri studenti qualsiasi percorso scolastico scelgano lo vivano con benessere e affinché la scuola torni ad essere ascensore sociale ci deve essere una fortissima personalizzazione dell’apprendimento, in particolare per chi ha maggiori fragilità, la didattica deve essere più attenta alla specificità del singolo e questo richiede un investimento metodologico e finanziario da parte delle istituzioni, bisogna attivare delle collaborazioni. Il docente facilitatore del benessere va un po’ in questa direzione, poi si sta lavorando molto sui recuperi, c’è anche il Pnrr , molte attività che si stanno realizzando in questi mesi vanno nella direzione di un accompagnamento ulteriore degli studenti che manifestano criticità, c’è un grande lavorio e questa è la chiave per far si che l’apprendimento non sia influenzato dalla provenienza sociale dello studente».

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