Berlusconi era taglieggiato dalla mafia, ma media e pm non si rassegnano

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La trasmissione Report andata in onda domenica scorsa è stata definita da Marina Berlusconi come «un ignobile e vergognoso esercizio di pseudo-giornalismo». I fatti, se non piegati alle tesi, sembrano in effetti raccontare una storia ben diversa rispetto a quanto mostrato su RaiTre. Partiamo da un dato: siamo alla quinta azione giudiziaria promossa dalla procura di Firenze nei confronti di Silvio Berlusconi e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, accusati di essere i mandanti delle stragi mafiose del 1993. Le precedenti quattro inchieste sono state tutte archiviate.

Nel 1998, la procura fiorentina archiviò l’indagine per mancanza di prove, in cui Berlusconi e Dell’Utri erano indicati come “Autore uno” e “Autore due”. Dopo quattro anni, nel 2002 entrò in scena la procura di Caltanissetta con i pubblici ministeri Luca Tescaroli e Nino Di Matteo. In questa nuova indagine, i due indagati vennero ribattezzati “Alfa” e “Beta”, ma anche in quel caso il risultato fu una nuova archiviazione.

Sembrava finita, ma nel 2008 la procura di Firenze tornò alla carica con una nuova inchiesta, conclusasi nuovamente senza esito. Nel 2017, sempre a Firenze, fu il pm Tescaroli a riaprire il caso, questa volta basandosi sulle intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, raccolte nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. Tesi, quest’ultima, completamente sconfessata.

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Arriviamo al 2021: il quarto tentativo di trovare elementi certi per portare a processo Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi mafiose del 1993, che colpirono Firenze (via dei Georgofili), Roma (chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro). Ancora una volta, nulla di fatto.

Ora siamo al quinto capitolo di questa vicenda. Questa volta, coinvolgendo figure come Paolo Bellini e l’ex comandante dei Ros Mario Mori, si cerca l’appiglio – e forse questa volta lo trovano – per procedere con dei rinvii a giudizio. L’ipotesi della procura di Firenze rimane invariata: gli attentati del 1993 sarebbero serviti a destabilizzare il governo Ciampi (caduto nel gennaio 1994), generare paura tra i cittadini e spianare la strada al successo politico di Silvio Berlusconi. Secondo i pm, Berlusconi e il suo stretto collaboratore avrebbero beneficiato degli effetti dello stragismo. Le stragi mafiose, sempre secondo l’accusa, si sarebbero concluse dopo il 23 gennaio 1994 grazie a una “assicurazione” fornita da Dell’Utri e Berlusconi. In questo quadro completamente sconclusionato per chi conosce la vicenda politica di quegli anni, si ipotizza il coinvolgimento di entità varie, inclusa l’eversione nera.

Ma Berlusconi era davvero vicino alla mafia? E, soprattutto, la finanziava? Per rispondere, può essere utile rileggere alcuni passaggi delle intercettazioni effettuate quando Totò Riina era sottoposto al regime del 41 bis. Curiosamente, i pubblici ministeri sembrano aver smesso di utilizzarle. Ogni volta che hanno provato a farle rientrare nelle loro tesi giudiziarie, ne è emersa una smentita clamorosa: Riina afferma l’esatto contrario di ciò che si voleva dimostrare.

Prendiamo proprio il caso di Berlusconi. Il capo dei capi lo odiava profondamente. Lo disprezzava per il 41 bis, lo detestava sul piano politico e, come accadeva con le più accese invettive antiberlusconiane dell’epoca, arrivava persino ad accusarlo di essere un pedofilo. «Un uomo senza dignità che meriterebbe la fucilazione!» diceva Riina, aggiungendo che, piuttosto che aiutarlo, «andrebbe gettato in fondo al mare».

Riina racconta anche di come avesse compiuto estorsioni ai danni di Berlusconi, prendendo di mira le sue televisioni con attentati contro le antenne. A questi si aggiungevano gli attacchi alla Standa orchestrati dai catanesi. In questo modo, Riina riusciva a estorcergli denaro. «Ci dava duecentocinquanta milioni ogni sei mesi», afferma il boss. Nei fatti, Berlusconi era una vittima. Del resto, è ciò che conferma anche la sentenza della Cassazione del 2012: tramite l’intermediazione dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, Berlusconi pagò la mafia per proteggere se stesso e la sua famiglia. Si trattava, in sostanza, del più classico dei meccanismi mafiosi: vendere protezione contro le minacce create dalla stessa organizzazione criminale.

È evidente, però, che il suo imperdonabile errore è stato quello di cedere al ricatto, piuttosto che denunciare e combattere. Ma qui si entra nella questione morale che non dovrebbe essere contemplata. All’epoca, ricordiamo, la mafia uccideva ogni giorno, compiva attentati, ammazzava chiunque non cedeva. Detto questo, un conto è pagare la mafia perché minacciato, un altro è finanziarla per ottenere benefici personali. D’altronde, è lo stesso Riina, nell’intercettazione del 22 agosto 2013, a dire di non aver mai messo in programma un possibile aggancio a Berlusconi. Precisa di non aver mai pensato di incontrarlo o avvicinarlo perché all’epoca non aveva raggiunto l’attuale notorietà, altrimenti avrebbe cambiato pensiero, tentando di avvicinarlo. Ribadisce che ci sarebbe riuscito con estrema facilità, perché l’organizzazione da lui capeggiata era forte dappertutto e anche perché a Milano era attiva una decina diretta da Saro Riccobono e Luciano Liggio, di stanza là in modo strategico per controllare.

Oggi Berlusconi, nonostante sia morto, rimane l’imputato ombra del mandante delle stragi del 1993. Nonostante le numerose archiviazioni, la Procura di Firenze potrebbe avviare un nuovo processo che vedrebbe imputati Dell’Utri, il neofascista Bellini e possibilmente l’ex Ros Mario Mori.

Le varie teorie si rincorrono, alternando Cia, P2, eversione nera, Gladio e Berlusconi, poi tutto insieme, ma sono in contrasto con la vera natura della mafia corleonese. Come sottolineava Giovanni Falcone, i corleonesi non accettavano di essere guidati dall’esterno, anzi miravano a sottomettere il potere economico e politico. L’inconsistenza logica di queste ipotesi emerge chiaramente dai fatti: nel periodo delle stragi del ’92-’93, Forza Italia non esisteva ancora e Berlusconi non aveva alcun peso politico.

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Lo stesso Riina, intercettato al 41 bis il 30 agosto 2013, lo definì sprezzantemente “solo un palazzinaro”. Durante il processo Borsellino Ter, i pentiti Giovanni Brusca, Angelo Siino, Tullio Cannella e Malavagna hanno confermato il sostegno elettorale di Cosa Nostra a Forza Italia nel 1994, ma nessuno ha mai parlato di contatti con Berlusconi nel 1992. Anzi, le loro testimonianze rivelano che nel 1993 Cosa Nostra tentò di creare un movimento indipendentista siciliano, una sorta di Lega del Sud, progetto poi abbandonato all’inizio del 1994 per sostenere il nuovo partito di Berlusconi.

Gli eventi successivi parlano chiaro: Forza Italia si separò dalla Lega Nord – proprio quel movimento che, secondo le indagini sulle leghe meridionali, avrebbe dovuto rappresentare il legame con Cosa Nostra. Il governo Berlusconi cadde dopo pochi mesi, rendendo evidente l’inconsistenza del teorema che vede lui e Dell’Utri come mandanti delle stragi.



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