Negli anni trenta del Novecento, sir Austen Chamberlain – fratello del primo ministro britannico – rese popolare una maledizione cinese che egli aveva imparato dall’ambasciatore inglese presso il Celeste Impero. In realtà, pare che tale frase non sia attestata in Cina, e che scaturisca proprio nel corto circuito tra lingue e culture cinese e inglese: proprio quel corto circuito che vorremmo ancora, al posto di una guerra fredda che ogni momento minaccia di farsi caldissima. Ebbene, quella sottile maledizione apocrifa dice: «Possa tu vivere in tempi interessanti!», e direi che ci ha colpiti in pieno.
Prendiamo la postdemocrazia: il neologismo di Colin Crouch sembrava una categoria astratta per politologi, un’etichetta catastrofista. E invece ora, proprio negli ultimi giorni, l’abbiamo vista: con il capo (rigorosamente al maschile) di un importante Governo occidentale – il nostro – ammesso al bacio della pantofola alla corte privata di Mar-a-Lago, a mostrare “rispetto” al padrone del mondo nella sua villa da miliardario pazzo uscita dal Satyricon di Fellini. Eccola la postdemocrazia: niente più spazio pubblico, niente decisioni prese in pubblico, niente parlamenti e nemmeno governi. Somiglia a qualcosa che conosciamo bene: l’oligarchia, il governo dei più ricchi. Il potere militare di quella che è ancora la superpotenza mondiale, il capitale dell’uomo più ricco del mondo, il controllo dei media e dei social media: contro questo buco nero della democrazia ci sarebbe solo un rimedio, il pensiero critico. Sarà per questo che il vicepresidente eletto David Vance ha detto, per tempo, che «le università sono il nemico. Penso che il modo di fare di [Orbán] debba essere un modello per noi: non eliminare le università, ma dare loro la possibilità di scegliere tra la sopravvivenza e l’adozione di un approccio all’insegnamento molto meno parziale».
La cortigiana di Mar-a-Lago è veloce a imparare le lezioni, specie quando le sono congeniali: e dunque anche da noi l’università è diventata un nemico. L’anno prossimo, a causa dei tagli del suo Governo, il sistema universitario italiano assumerà poco o nulla, mandando a una intera generazione di ricercatori un messaggio chiarissimo: “andate via!”. Accanto ai tagli si delinea un percorso di riforme che si annunciano radicali, quanto pessime. In che direzione andranno, lo ha candidamente confessato uno dei componenti della commissione che dovrebbe riscrivere il sistema accademico (una commissione che assomiglia a un museo delle cere delle concezioni più retrive di università che si siano allineate negli ultimi decenni), sostenendo che l’università non deve formare al pensiero critico, non sia mai, ma deve “stratificare la società”, cioè decidere chi comanda e chi obbedisce, chi guadagna e chi no. Musk sarebbe d’accordo: la scuola deve insegnare a fare le cose, ha scritto sul suo X. Non certo a pensare: guai!
E ora spunta un’altra norma anti-universitaria: una norma che pare immaginata da Orwell. L’articolo 31 del disegno di legge (approvato alla Camera col numero 1660 e in coda al Senato come 1236) cosiddetto “Sicurezza” (ma che sarebbe meglio chiamare “ddl Stato di polizia”) prevede che: «Le pubbliche amministrazioni, le società a partecipazione pubblica o a controllo pubblico e i soggetti che erogano, in regime di autorizzazione, concessione o convenzione, servizi di pubblica utilità sono tenuti a prestare al DIS, all’AISE e all’AISI la collaborazione e l’assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie per la tutela della sicurezza nazionale. Il DIS, l’AISE e l’AISI possono stipulare convenzioni con i predetti soggetti, nonché con le università e con gli enti di ricerca, per la definizione delle modalità della collaborazione e dell’assistenza suddette. Le convenzioni possono prevedere la comunicazione di informazioni ai predetti organismi anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza». Tradotto: le pubbliche amministrazioni (tra cui la scuola pubblica…) hanno l’obbligo di collaborare con i Servizi segreti e di sicurezza, mentre l’università (che, ancora, non può esservi costretta per il fastidioso articolo 33 della Costituzione che ne tutela l’autonomia, e dunque la libertà) può farlo “spontaneamente”.
Non bisogna avere la palla di cristallo per immaginare che – a partire dalle telematiche e dalle private, per poi arrivare alle pubbliche con i rettori più desiderosi di piacere a questo Governo – ci sarà la fila. Il testo è volutamente generico e ambiguo, ma apre la porta alla possibilità che gli atenei consegnino ai Servizi da una parte le schede personali di docenti e studenti “irrequieti”, dall’altra passino loro direttamente i risultati della ricerca. Nell’un caso e nell’altro andrebbero in fumo quasi mille anni di storia in cui l’università – tra alti e bassi – ha difeso la sua autonomia dallo Stato, e la sua libertà dalla ragion di Stato. E a mettere le mani su informazioni tanto delicate e preziose sarebbe uno Stato che è oggi la postdemocrazia di cui sopra: uno Stato italiano consegnato agli oligarchi americani che controllano l’Occidente.
Nello scenario orwelliano in cui i nemici della libertà parlano continuamente di libertà, il tempio del pensiero critico diventa l’orecchio del Grande Fratello. Chi sostiene che tutta questa preoccupazione per la democrazia sia un gridare “al lupo, al lupo”, dovrebbe misurare l’enormità delle cose che stanno succedendo in Occidente – cose impensabili solo pochi mesi fa. E l’evidenza delle “riforme” messe nero su bianco dovrebbe farci capire che se non vediamo il lupo è perché ce lo abbiamo troppo vicino: perché gli siamo in bocca.
L’articolo è pubblicato anche su Il Fatto quotidiano
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link