Le foto da latitante dell’ultimo capo della linea stragista di Cosa Nostra e le inchieste sugli interessi in città
Otto foto. Tutte scattate il 20 maggio 2006, con l’Arena e Verona a far da sfondo. «Ti ricordi quando ti ho mandato dei vestiti, dei costumi da bagno, dei pantaloni bianchi con una maglia a righe blu e bianche, stile marinaretto. C’erano i pattini a rotelle e c’erano anche dei foulard Bulgari, non per te. Ebbene, tutte quelle cose le comprai io personalmente il giorno che feci quelle foto in quella medesima città…». A scrivere è Matteo Messina Denaro, destinataria la figlia. Era latitante da 23 anni, quando si fece quelle foto, «u siccu». Un mese e una settimana prima era stato arrestato Bernardo Provenzano, il «capo dei capi». E lui, Messina Denaro, era diventato il primo sulla lista dei ricercati. Quegli stralci e quelle foto a Verona sono stati anticipati in esclusiva da Repubblica e fanno parte del libro, che uscirà tra una settimana edito da Rizzoli, «I diari del boss – parole, segreti e omissioni di Matteo Messina Denaro» del giornalista Lirio Abbate.
Tre decenni di latitanza
E quei diari, che Messina Denaro chiamava «i libricini», sono la bussola per ricostruire una latitanza durata quasi tre decenni. Ma anche per scavare nella geografia degli affari veronesi di quello che è stato definito come l’ultimo capo della linea stragista di Cosa Nostra. «I super latitanti come lui in genere stanno nei loro territori. Se ti sposti, vai negli alberghi, mangi nei ristoranti, fai acquisti nei negozi e ti scatti delle foto vuol dire che sei tranquillo e che ti senti al sicuro…», commenta Pier Paolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, la rete degli enti locali per la cultura della legalità. Per l’assessora comunale alla Sicurezza Stefania Zivelonghi «di sicuro questo ci dà lo spunto per ribadire la nostra richiesta, che non ci stanchiamo di portare avanti e che per ora rimane inascoltata, di avere una sede della direzione distrettuale antimafia nel nostro territorio».
Gli affari del boss
E in effetti è difficile credere che in quel maggio di diciannove anni fa sotto l’ala dell’Arena, Messina Denaro ci sia arrivato da semplice turista. Perché quelli sono gli anni in cui nel Nordest la criminalità organizzata veniva a fare affari. Lo fa con i «colletti bianchi» che prendono il posto dei picciotti. Con affaristi, prestanome che diventano imprenditori. In un El Dorado dove il riciclaggio del denaro frutto dei traffici illeciti rotea come una girandola al vento. Non ha lasciato solo quelle foto, a ricordo del suo passaggio a Verona, Matteo Messina Denaro. Ha anche seminato. Germogli finanziari che sono poi stati estirpati da varie inchieste. Era il 27 luglio del 2010, quando la prefettura di Reggio Emilia emise un’interdittiva antimafia a carico di una società edile, la Edilperna srl, il cui socio unico era Rosario Perna. Quella Edilperna che poco tempo prima aveva avuto in subappalto alcuni lavori dalla ditta Bonatti spa di Parma, che aveva vinto la gara per i cantieri del polo Confortini e dell’Ospedale della Donna e del Bambino in Borgo Trento.
Le inchieste
La moglie di Perna, era figlia di un appartenente alla famiglia mafiosa di Gela facente capo al clan Rinzivillo. Da lì quell’interdittiva e la decisione dell’azienda ospedaliera di revocare il subappalto. Cosa che avvenne anche con un’altra ditta. Quella Acropoli srl di cui amministratore unico era Emanuele Comandatore, sposato con la sorella di Perna. Comandatore che della Edilperna era stato consigliere. Con il clan Rinzivillo che torna anche in un’altra indagine sfociata a Verona. Quella, del 2020, che portò al sequestro di beni per 15 milioni a Rosario Marchese, 31enne ufficialmente nullatenente residente nel Bresciano, socio unico di quel Marchese Group che gestiva un autonoleggio con una flotta di veicoli di lusso all’aeroporto Catullo – la cui società era del tutto estranea agli affari dell’imprenditore – e gli spazi pubblicitari nella sala vip dello scalo veronese. Sequestro scaturito da un’indagine della Direzione investigativa antimafia secondo la quale Marchese avrebbe trasferito i proventi degli affari a vari pregiudicati del clan Rinzivillo. Quel clan il cui capo, Salvatore Rinzivillo era ritenuto talmente «affine» a Matteo Messina Denaro da essere stato pedinato a lungo per arrivare a «u siccu».
Vino ed energia eolica
A Verona Messina Denaro non avrebbe disdegnato neanche di fare affari con il vino. È qui che veniva spesso un imprenditore siciliano del settore le cui bottiglie hanno avuto diversi riconoscimenti a Vinitaly. Imprenditore considerato molto «vicino» al boss di Cosa Nostra. Ma è un’indagine del 2011 a sancire che «Diabolik», altri soprannome di Messina Denaro, non disdegnava di far profitto all’ombra dell’Arena. Fu in quell’anno che l’allora prefetto di Verona Perla Stancari emise quattro interdittive antimafia a carico di altrettante società che si occupavano di energia eolica. Avevano sede legale in città, quelle aziende. In piazza Cittadella. Ma di fatto operavano dove Messina Denaro aveva il suo feudo, nel Trapanese. Società gestite da quel Vito Nicastri, la cui figura è stata ricostruita dalle indagini della Dda di Palermo e dalla Dia di Padova come colui che avrebbe finanziato la latitanza del boss, accusa da cui è stato successivamente assolto. In seguito una di quelle interdittive, a carico della Eolo Tempio Pausania, fu confermata sia dal Tar che dal Consiglio di Stato che scrisse come «tutte le società in questione, non esclusa Eolo Tempio Pausania, fossero malleabili strumenti del sistema malavitoso». Quello di Cosa Nostra, i cui affari a Verona rientrano adesso nelle indagini scaturite da quei «libricini» di «u siccu».
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