Se qualcuno ci chiedesse di indicare il paese leader nella UE per export di prodotti agroalimentari sono certo che molti indicherebbero senza esitare l’Italia. Nella produzione agroalimentare il nostro paese vanta una varietà e qualità che ci viene riconosciuta e invidiata nel mondo. Rimarremo quindi sorpresi nell’apprendere che nell’ambito dell’UE l’Italia è quinta per valore dell’export di prodotti agroalimentari dopo Olanda, Germania, Francia e Spagna. Nel caso della Francia e della Germania c’è l’attenuante della dimensione, trattandosi di paesi con una popolazione superiore a quella italiana. Non così per la Spagna, o per l’Olanda la cui popolazione è meno di un terzo di quella italiana. La graduatoria è diversa a seconda dei comparti.
Nelle bevande siamo secondi dopo la Francia grazie al vino, ma se escludiamo le bevande (circa un quarto del totale) verremo superati anche dal Belgio, passando in sesta posizione. Nel 2023 l’export agroalimentare italiano ha superato i 60 miliardi di Euro, ma l’Olanda è ben oltre i 100 miliardi, la Germania oltre i 90, Francia e Spagna oltre i 70. Facciamo fatica ad immaginare che altri paesi europei siano in grado di esprimere una qualità e una varietà maggiore delle nostre produzioni agro-alimentari. Il problema è che l’export non richiede solo qualità e varietà ma anche quantità e capacità organizzativa.
Se dovessimo indicare il principale fattore di spiegazione della modesta performance all’export del nostro comparto agroalimentare la risposta sarebbe senza dubbio la ridotta dimensione delle nostre imprese. Prendiamo il caso dell’agricoltura. In Italia le aziende agricole sono oltre un milione; in Francia meno della metà ; in Germania non arrivano a 300.000 e in Olanda sono meno di centomila. In Italia il 60% delle imprese agricole lavora meno di 5 ettari di terreno e solo il 4% ne lavora oltre 100 ettari. In Germania il 9% delle aziende agricole lavora meno di 5 ettari e il 40% delle imprese lavora oltre 100 ettari. Anche in Francia oltre il 40% delle imprese agricole lavora più di 100 ettari di terreno. La situazione non è diversa se prendessimo in considerazione le imprese dell’industria alimentare; anche in questo caso l’Italia si caratterizza per la prevalenza delle microimprese e lo scarso peso delle grandi. E’ evidente che vi sono ragioni storiche e di configurazione territoriale che giustificano queste differenze. Ma solo in parte.
Per il resto sono il risultato di assetti istituzionali e politiche che, in agricoltura come in altri settori, hanno favorito la sopravvivenza di imprese di piccola e piccolissima dimensione. Dall’ultimo censimento ISTAT emerge che il 94% delle imprese agricole è un’impresa individuale e solo l’1% è in forma di società di capitali. In sostanza, solo una piccolissima parte può definirsi propriamente un’impresa mentre per la stragrande maggioranza si tratta di economia domestica.
Tutto questo ha conseguenze rilevanti non solo per l’export. La produttività (cioè il valore aggiunto per addetto) delle microimprese è meno della metà di quello delle grandi, dal momento che la ridotta dimensione impedisce di investire in tecnologie avanzate, assumere personale qualificato e adottare modelli gestionali adeguati. Nell’articolo di fondo di giovedì scorso su questo giornale il collega Davide Neri ha evidenziato le notevoli possibilità di innovazione tecnologica che si prospettano per il settore agroalimentare in relazione alla transizione digitale ed ecologica.
Le imprese italiane evidenziano un ritardo significativo nell’adozione delle tecnologie digitali nel confronto con i paesi avanzati dell’UE. La causa è proprio la ridotta dimensione delle imprese, che rende insostenibile l’acquisizione di tecnologie avanzate e l’assunzione delle competenze necessarie al loro utilizzo. In questo settore, come in altri, è inutile continuare con gli incentivi all’acquisto di tecnologia. La strada principale deve essere quella di definire assetti normativi e agevolativi che incentivano le imprese a crescere. Solo in questo modo riusciremo a risolvere il problema della bassa produttività , delle basse retribuzioni e delle conseguenti difficoltà a competere sui mercati globali.
* Docente di Economia Applicata all’Università Politecnica delle Marche
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