Boschi della droga a Varese, così gli spacciatori sfruttano l’«aiuto» dello Stato: l’avviso prima dell’arresto favorisce il turnover dei pusher

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di
Andrea Galli

Mamme, lavoratori e ragazzini in coda per comprare una dose a pochi euro, mentre il sistema di sentinelle permette alle bande di agire indisturbate. La battaglia della procura di Busto Arsizio contro il traffico di stupefacenti oggi sta diventando ancora più difficile

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Come se già non abbondassero certi perenni ostacoli dati dalla geografia e dalla logistica dei cosiddetti (estesi, ostici per conformazione, sovente isolati sulle mappe) «boschi della droga» della provincia di Varese che vede pressoché in solitaria la Procura di Busto Arsizio in azione nonostante il più consistente organigramma della Procura di Varese. Oppure come se non fossero così ormai strutturate le modalità operative delle bande di origine marocchina (provenienti dai villaggi della zona povera e di migrazione di Béni Mellal), e di contro acclarate le fisiologiche criticità dell’investigazione (il sistema delle sentinelle, quello delle dosi imboscate, i depistaggi per impedire di risalire ai depositi, la larga presenza di irregolari con alias, il diffuso ricorso a un «turnover» affinché l’indagato sparisca e compaia sulla scena un suo sostituto, sconosciuto ai carabinieri, ai poliziotti, ai magistrati che dunque debbono ricominciare da capo).

Ecco, come se già non mancasse tutto questo nel quotidiano contrasto alla piaga criminale e sociale, adesso s’aggiunga la difficile situazione derivante delle modifiche volute dal ministro della Giustizia con la recente riforma che prevede fra le altre cose d’avvisare l’indagato cinque giorni prima del suo arresto, fornendogli la possibilità di leggere le «carte» dell’accusa.




















































In questo caso specifico di Varese, terra massacrata dal dilagare dello spaccio, da mamme, lavoratori, anziani e giovanissimi in coda per l’acquisto dei grammi di eroina e cocaina senza che si alzi mai un’ondata nazionale di sdegno e presa di coscienza, anche se i magistrati di Busto e Varese al riguardo con noi tacciono non volendo andare, quantomeno ufficialmente, contro il ministro, stanno nascendo davvero tanti problemi.

Intanto, se gli spacciatori lo facevano prima, figurarsi ora: cinque giorni sono un lasso più che utile per sparire e tornarsene in Marocco; per costruirsi nuove false identità facendo fabbricare documenti farlocchi (nella medesima area di Béni Mellal abbondano, ricavati nei retro e nei sottoscala dei negozi di telefonia, i laboratori che producono appunto identità contraffatte). Allo stesso modo, poter leggere la dinamica e la progressione delle indagini, i nomi contenuti, le deposizioni di questo oppure quel tossicodipendente, questo o quell’abitante, questo o quell’appassionato di bici che si trova a passare nei boschi e ha visto e deciso di non farsi i fatti propri, fornisce dritte precise ai pusher, circostanziate, per andarli a minacciare. Picchiare. 

A fronte di stagioni copiose per fascicoli e catture con anche provvidenziali interventi che avevano evitato scontri tra bande avverse armate di arsenali, l’attività di contrasto, intendendo quella finalizzata nei provvedimenti giudiziari, purtroppo rallenta. Forse apparendo destinata addirittura a spegnersi. Consideriamo poi che tra quelle medesime nuove disposizioni ai magistrati c’è l’«invito» ad agire in relazione esclusiva a grossi quantitativi di stupefacenti, quando dinamiche come quelle dei boschi — una trentina le zone censite dalle forze dell’ordine —, e non serve la laurea, forse nemmeno il diploma, configurano scenari di bassa quantità da sequestro ma a maggior ragione di feroci, tribali contese per dominare il territorio.

15 gennaio 2025 ( modifica il 15 gennaio 2025 | 08:32)

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