business da 300 miliardi di euro l’anno

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La relazione del Consiglio Europeo: Francia al primo posto con 235 mld. Onu: con 40 mld l’anno si risolve la fame nel mondo

Il ritorno di tensioni geopolitiche che non si vedevano da anni, unito alla necessità di rinnovare e modernizzare le forze armate sul piano tecnologico, sta riportando la sicurezza al centro delle priorità politiche ed economiche dell’Occidente. Gli impegni assunti dalla NATO, la crescente assertività della Cina e nuove minacce come il terrorismo e i cyberattacchi hanno contribuito a un aumento significativo – forse senza precedenti – della spesa militare negli ultimi anni. Nel 2022, la spesa militare in Europa ha raggiunto livelli che non si registravano dai tempi della Guerra Fredda, mentre nel 2023, secondo il SIPRI, quella globale ha toccato un nuovo massimo storico di 2.300 miliardi di dollari, segnando il sesto anno consecutivo di crescita. Un’accelerazione particolare è coincisa con l’inizio della guerra in Ucraina, spingendo le principali potenze europee ad aumentare il proprio arsenale e il bilancio per la difesa. Il budget dell’UE per la sicurezza è passato da 6,5 miliardi nel 2007 a 19,5 miliardi di euro nel 2027, a cui si aggiungono fondi straordinari come l’European Peace Facility, che ha mobilitato 39 miliardi di euro entro settembre 2024 per supportare l’Ucraina.
Parallelamente, organizzazioni come ENAAT e la Rete Italiana per il Disarmo hanno evidenziato come la spesa militare globale abbia favorito utili record per le lobby dell’industria bellica. Secondo il centro di analisi indipendente Centre Delàs, nel 2023 il bilancio militare degli Stati europei ha raggiunto i 289,3 miliardi di euro, con un incremento del 21,3% rispetto al 2022. Considerando anche i contributi di paesi extra UE, come Norvegia e Regno Unito, la spesa militare europea legata alla NATO ha toccato i 366,6 miliardi di euro, superando sia la Cina che la Russia, posizionandosi al secondo posto globale dopo gli Stati Uniti. Questo aumento è stato accompagnato da una crescita delle esportazioni di armi: nel 2022, i paesi dell’UE hanno venduto beni militari per oltre 36 miliardi di euro, di cui quasi 5 destinati all’Ucraina. Tale processo di militarizzazione ha sollevato critiche, soprattutto per l’influenza degli Stati Uniti e della NATO, le cui esigenze di sicurezza divergono dagli ideali originari dell’Unione Europea. Gli Stati Uniti traggono benefici economici e strategici dai conflitti, come quello in Ucraina, mentre l’Europa affronta conseguenze economiche, politiche e sociali potenzialmente gravose per le future generazioni.

Consiglio Europeo © Imagoeconomica

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A fare da sfondo a questa situazione, vi è la centralità delle lobby delle armi e della NATO, promotrici di politiche di sicurezza basate su un militarismo radicale, a discapito di strategie orientate alla cooperazione internazionale, alla giustizia globale e alla pace. Inoltre, nel medio e lungo periodo, le scelte politiche che alimentano la militarizzazione globale stanno incentivando anche l’espansione degli arsenali nucleari. Nel 2024, i paesi dotati di armi nucleari hanno speso complessivamente 91,4 miliardi di dollari per modernizzare i propri arsenali, sostenuti da attività di lobbying che, per promuovere il riarmo nucleare come strumento di deterrenza e sicurezza nazionale, hanno investito 6,3 milioni di dollari. Un fenomeno che drena risorse destinate a sfide globali cruciali, come il cambiamento climatico e la riduzione delle disuguaglianze, alimentando una pericolosa spirale di tensioni internazionali. Non è un mistero, infatti, che la retorica del riarmo come strumento di pace – rappresentata dall’antico adagio “Si vis pacem, para bellum” – si sia sempre rivelata come una direzione fallace, storicamente associata a escalation militari. Con una differenza fondamentale: se questa volta dovesse verificarsi un conflitto su scala globale, potrebbe essere condotto con testate nucleari, la cui potenza supera di gran lunga quella di Hiroshima e Nagasaki.


Il 26° rapporto annuale del Consiglio Europeo

Parte delle politiche di militarizzazione e delle logiche di profitto legate all’industria bellica emerge chiaramente all’interno del 26° Rapporto Annuale del Consiglio Europeo, pubblicato a dicembre 2024. Questo documento, seppur in modo indiretto, descrive gli interessi economici spesso celati dietro concetti come “sicurezza globale” o “valori fondamentali”. Tra i temi principali, spiccano il dialogo politico con partner globali come Stati Uniti, Norvegia e Canada, e l’applicazione del Trattato sul Commercio delle Armi (ATT) per regolare le esportazioni verso paesi a rischio di instabilità. Il rapporto include anche la collaborazione con il Parlamento Europeo, ONG e l’industria della difesa. Un aspetto rilevante è la cosiddetta lista comune militare dell’UE, che identifica le categorie di equipaggiamenti soggetti a controllo, accanto a programmi di assistenza come quelli in Liberia e Sierra Leone.

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Vertice NATO con tutti i presidenti delle nazioni che ne fanno farte © Imagoeconomica

Si menzionano anche missioni in regioni fragili, supportate dal Fondo Europeo per la Pace (EPF), con un budget di 17 miliardi di euro. Tra queste, spiccano la Missione di Transizione in Somalia (ATMIS) e il supporto alle forze armate del Mozambico. Sebbene tali programmi puntino a stabilizzare le aree di conflitto e rafforzare le capacità locali, hanno sollevato critiche per il rischio di militarizzare ulteriormente contesti delicati, che necessitano di altri tipi di investimenti, sia dal punto di vista sociale che economico. Un altro punto centrale del rapporto è il valore economico delle esportazioni di armamenti dall’Unione Europea. Con indubbio vantaggio per l’industria bellica, i Paesi UE hanno esportato di tutto: dalle armi da fuoco calibro 20 alle munizioni, ma anche bombe, siluri, razzi, missili e cariche esplosive di vario genere. Non mancano, inoltre, agenti chimici, biologici e materiali radioattivi, navi da guerra, attrezzature navali, apparecchiature elettroniche e molto altro ancora.


Le esportazioni di armi europee a livello mondiale

I dati presenti nel rapporto annuale sull’esportazione di armi lasciano sbigottiti. Nel 2023 – anno a cui fa riferimento il rapporto – sono state rilasciate 33.775 licenze per l’esportazione di armi, ovvero autorizzazioni ufficiali emesse dai governi degli Stati membri per consentire la vendita o il trasferimento di materiali militari verso paesi terzi. Tuttavia, va sottolineato che ogni licenza rappresenta un permesso formale relativo a una specifica transazione, ma non corrisponde necessariamente al numero effettivo di esportazioni realizzate, che nella maggior parte dei casi risulta essere significativamente più elevato. Analizzando i principali Paesi esportatori, l’Italia si distingue per aver rilasciato 150 licenze relative ad armi leggere, come fucili, pistole, mitragliatrici e accessori specifici (caricatori, otturatori, silenziatori), generando un valore complessivo di 126,8 milioni di euro. Le esportazioni di armi pesanti, come cannoni e mortai, hanno raggiunto quasi 512 milioni di euro. Sempre per quanto riguarda l’Italia, che evidentemente ripudia la guerra ma non gli affari, le bombe, i missili e gli esplosivi hanno rappresentato un giro d’affari di 1 miliardo e 14 milioni di euro. I veicoli terrestri militari hanno fruttato 564 milioni di euro, le navi da guerra e attrezzature navali 110 milioni di euro e gli aeromobili, inclusi i droni (UAV), quasi 800 milioni di euro. Anche la Germania ha registrato numeri significativi: le esportazioni di armi leggere hanno fruttato oltre 300 milioni di euro, mentre le munizioni hanno generato un fatturato di 2,55 miliardi di euro. Bombe, siluri, razzi e missili hanno totalizzato più di 2 miliardi di euro, e i veicoli militari terrestri hanno prodotto circa 4 miliardi di euro. Le apparecchiature elettroniche per uso militare hanno contribuito con 485 milioni di euro, mentre le attrezzature di controspionaggio, come i dispositivi per l’intercettazione delle comunicazioni, hanno generato 116 milioni di euro. Infine, i sistemi d’arma ad alta velocità hanno raggiunto un fatturato di 1,5 milioni di euro. La Francia ha registrato il record di esportazioni con 235,7 miliardi di euro, seguita dalla Spagna al secondo posto (15,7 miliardi di euro), dalla Germania (12,1 miliardi di euro), dalla Polonia (10,8 miliardi di euro) e dall’Italia al quinto posto con 4,8 miliardi di euro. Complessivamente, l’intera Unione Europea, rilasciando 33.775 licenze in un solo anno, ha venduto armamenti per un valore economico di quasi 300 miliardi di euro.

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© Imagoeconomica

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Il grande fallimento

In passato, uno studio condiviso dalle Nazioni Unite ha evidenziato un dato sorprendente: con un investimento annuale di circa 40 miliardi di euro sarebbe possibile porre fine alla fame nel mondo. Un importo che, se confrontato con le cifre astronomiche destinate alla spesa militare globale, potrebbe indicare, anche solo in parte, la direzione intrapresa dall’uomo moderno e civilizzato. Ad ogni modo, partendo da un dato semplice ma fondamentale per comprendere cosa sia la guerra, è importante riconoscere che, pur essendo una costante nella storia umana, essa rimane un fenomeno oggettivamente evitabile. In pratica, questa è la tesi sostenuta da numerose scuole di pensiero, che negli anni hanno criticato le scelte politiche e culturali di molti Paesi, Europa inclusa. Scelte che finiscono per legittimare la violenza come unico mezzo per raggiungere determinati obiettivi, specialmente nel settore della sicurezza, troppo spesso fondato su militarizzazione e deterrenza. Non sorprende, dunque, che il modello postbellico, il cui obiettivo era garantire un’Europa libera dai conflitti, sia fallito. È fallita anche la volontà di costruire modelli alternativi al dominio militare, che continua a seguire logiche di potere e interessi finanziari in grado di prevalere su qualsiasi altra considerazione. La Guerra Fredda e le sue conseguenze hanno consolidato una cultura guerrafondaia che non solo legittima la violenza, ma giustifica misure straordinarie, trasformando la sicurezza in una pratica autoreferenziale. Esistono, tuttavia, studi critici che hanno messo in discussione questa visione dominante. Tra questi spiccano quelli avviati negli anni ’70 dal sociologo e matematico norvegese Johan Galtung. Come ha ricordato il “Centre Delàs” in uno dei suoi più recenti rapporti sulle guerre, Galtung ha introdotto i concetti di “sicurezza umana” e “pace sostenibile”, fondati su strutture sociali che promuovono uguaglianza e diritti umani. Un approccio diametralmente opposto rispetto a quanto avviene oggi. In particolare, il modello di “sicurezza umana” proposto da Galtung ridefinisce il concetto di sicurezza, spostandolo dalla difesa dello Stato al benessere individuale e collettivo, e includendo aspetti quali i diritti umani, lo sviluppo sostenibile e la cooperazione internazionale. Un approccio trasformativo che vede la pace non come una semplice assenza di guerra, ma come un processo che alimenta fiducia, giustizia globale e riduzione delle disuguaglianze. Critiche simili al modello attuale, basato sulla violenza e sulla militarizzazione, sono state avanzate anche negli anni ’90 dal “Copenhagen Peace Research Institute” (COPRI). Si tratta della scuola di pensiero gallese che ha evidenziato come il discorso sulla sicurezza non sia neutrale, ma venga strumentalizzato dalle élite per rafforzare il controllo sociale. Partendo da questa analisi nasce il concetto di “securitizzazione”: un processo attraverso il quale eventi o problemi, come la lotta al terrorismo, le crisi migratorie o il cambiamento climatico, vengono trasformati in minacce esistenziali per giustificare interventi straordinari, spesso a scapito delle libertà civili. All’interno di questo quadro, paura e sicurezza diventano strumenti per mantenere le disuguaglianze globali, perpetuando un sistema di governance fondato su minacce amplificate, oppure costruite.
Nonostante la loro rilevanza, questi studi continuano a essere ignorati dalle istituzioni dell’Unione Europea (UE), dagli Stati membri e da organizzazioni internazionali come la NATO, che continuano a portare avanti una logica basata sulla sicurezza militare. Viene così rifiutata ogni alternativa decoloniale e ogni pratica incentrata sul dialogo, sulla giustizia sociale e sulla risoluzione non violenta dei conflitti. Non sorprende, dunque, che gran parte della politica dell’UE resti ancorata a una narrativa bellicosa. Oggi, per esempio, la paura di un’aggressione russa, alimentata da rappresentazioni che dipingono Vladimir Putin come una minaccia esistenziale, viene utilizzata per giustificare l’aumento degli investimenti nella difesa. Questa retorica, come abbiamo visto, sembra essere più orientata a sostenere le lobby degli armamenti che a rispondere ai reali bisogni di sicurezza collettiva.

Foto di copertina © Imagoeconomica

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