Furio Colombo, un borghese a sinistra

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Quando nel 2001 prese in mano l’Unità, a 70 anni appena compiuti, e la fece risorgere dalle sue ceneri, Furio Colombo aveva già raggiunto importanti traguardi umani e professionali: giornalista per la Rai, dal Vietnam al Medio Oriente, animatore del Gruppo 63 con Umberto Eco e Angelo Guglielmi, direttore di Fiat Usa, corrispondente dall’America per La Stampa, direttore dell’Istituto di Cultura italiano a New York, docente al Dams di Bologna e in alcune delle principali università americane.

Eppure si buttò in quell’avventura con l’entusiasmo di un ragazzo, convinto che quello storico quotidiano di partito potesse diventare qualcos’altro: un giornale corsaro, capace nello stesso tempo di essere un contraltare politico e culturale al berlusconismo e un’officina per una sinistra meno rassegnata davanti ai nuovi padroni di quanto lo fossero i partiti dell’opposizione. Non era un figlio del Pci, neppure un socialista, eppure (diversamente da tanti altri intellettuali e giornalisti che dai furori giovanili extraparlamentari erano smottati a destra), lui viveva serenamente il percorso opposto, quello di un borghese che sapeva cogliere e rilanciare la necessità di una sinistra più radicale, soprattutto nella difesa dei migranti e delle minoranze.

Attorno a lui si radunò una pattuglia di giornalisti e intellettuali (tra tutti Antonio Tabucchi), e i numeri arrivarono in tempi rapidi: l’Unità superò le 70mila copie in pochi mesi e diventò protagonista della politica negli anni delle piazze gitorondine contro le leggi ad personam e della battaglia della Cgil di Cofferati sull’articolo 18. Senza dimenticare la reazione dura e immediata alle violenze della polizia al G8 di Genova.

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Colombo, scomparso ieri dopo aver appena compiuto 94 anni, guidò il giornale senza chiedere permessi, con l’autonomia di un liberal d’altri tempi, cresciuto alla scuola dei grandi giornali americani degli anni ’60 e ’70, intriso degli ideali dell’America dei Kennedy e delle battaglie per i diritti civili. Convinto che anche il giornalismo italiano dovesse darsi una scossa, e che lo si potesse fare anche con un giornale di partito.

Il connubio con la redazione dell’Unità, tra cui molti ragazzi assunti direttamente da lui, funzionò. Forse troppo, tanto che nel 2005 il partito di riferimento, i Ds, decise che quella parentesi si poteva chiudere. Lui uscì da signore: «Era previsto che prima o poi lasciassi a Padellaro, i venti hanno un po’ accelerato il percorso, come accade a volte nel volo di ritorno da New York», disse durante l’assemblea di redazione terremotata e incredula.

Continuò a scrivere per alcuni anni poi, nel 2009, con Padellaro e Travaglio si lanciò nell’avventura del Fatto quotidiano, da cui è uscito nel 2022 per contrasti sulla guerra in Ucraina. Per poi concludere la sua carriera di editorialista a Repubblica. Nel frattempo era stato per tre volte parlamentare, prima con l’Ulivo e poi col Pd: in quegli anni fu primo firmatario della legge sul Giorno della Memoria della Shoah, il 27 gennaio.

Le riunioni di redazione con lui erano un curioso caleidoscopio di aneddoti: lui che sorvola Woodstock in elicottero, che viaggia in India coi Beatles, a New York con Che Guevara, l’amicizia con Joan Baetz, il rapporto con Bob Kennedy e Gianni Agnelli. Gli aneddoti partivano per caso, discutendo di fatti di cronaca e politica: li raccontava senza supponenza, come pezzi di vita che poteva condividere per alimentare la discussione e arricchire il giornale del giorno dopo. «Noi siamo opinionated ma corretti», diceva ai giovani cronisti, per dire che dovevamo essere orgogliosi di essere «di parte», senza mai truffare i lettori.

E così colpiva, in quei primi anni Duemila, l’accoglienza che riceveva tra i volontari delle feste dell’Unità: un marziano al Parco Nord di Bologna, un borghese illuminato che appassionava gli ascoltatori soprattutto per la sua fermezza. Per l’assenza di paura o timori reverenziali, e anche di formule politichesi, nel contrastare Berlusconi ma anche An e la Lega, di cui colse in anticipo la deriva di estrema destra, il substrato xenofobo dietro il federalismo. E il continuo sprone alla sinistra a non arretrare.

C’era sempre in lui una sorta di indignato stupore, l’idea che il Cavaliere e i suoi alleati fossero un’eccezione italica che non si sarebbe mai potuta manifestare in una democrazia matura come quella americana dove (almeno allora) c’erano codici etici e normativi assai più severi per evitare deragliamenti. Con Trump, anche quell’illusione è svanita. Così come è svanita la sua idea di un Israele disponibile al processo di pace e ad una soluzione a due stati.

Colombo è stato uno dei principali mediatori culturali tra la sinistra italiana e Israele: nei suoi libri e nei suoi interventi pubblici e nell’associazione «Sinistra per Israele». Un processo che ha subito una battuta d’arresto violenta dopo il 7 ottobre, ma lui non si arrendeva, non si arruolava, e negli ultimi mesi stava lavorando per La Nave di Teseo (altra avventura editoriale su cui si era buttato con entusiasmo a più di ottant’anni) a una riedizione del suo «La fine di Israele» del 2007. Era un uomo dall’inesauribile curiosità sul mondo e sulle persone, sui media, sulla musica, il cinema (fece anche un cameo ne «Il caso Mattei» di Francesco Rosi), i diritti, la democrazia. Un uomo verticale, un maestro di giornalismo.



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