Italia 2025: l’ombra dell’austerità e la sfida della resilienza industriale. Intervista a Marco Fortis su Patto di Stabilità, dazi Usa, incentivi e…

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Immagine generata con l’IA Grok.

Una nuova stagione di austerity potrebbe abbattersi sull’Italia nel 2025. È l’effetto del nuovo Patto di Stabilità che si inserisce in un contesto di un’Europa quanto mai fragile, con Germania e Francia in crisi economica e politica mentre dagli Usa soffia il vento del protezionismo. «Ma non tutto è perduto», avverte Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison, già docente di Economia Industriale e Commercio Estero all’Università Cattolica. «La solidità finanziaria del Paese e la diversificazione del sistema produttivo, insieme alla quarta posizione nella classifica globale dell’export, sono elementi di resilienza che saranno decisivi nel medio termine». In sintesi: se l’anno appena iniziato sarà difficile, a partire dal 2026 il valore occulto della nostra economia potrebbe emergere in maniera decisa.

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«Lo stesso Trump – aggiunge Fortis – potrebbe sorprendere in positivo: tutti guardano ai dazi, ma il verro impatto potrebbe arrivare dalla fine del conflitto russo ucraino, con un effetto positivo sull’economia europea coinvolta nella ricostruzione dell’Ucraina e nell’attenuazione degli elementi di tensione degli ultimi anni. Il nostro destino dipende di fatto da un intervento di geopolitica più che di politica economica». E poi ci sono le questioni europee legate al debito pubblico. Ma anche in questo caso, le carte vanno rimesse in ordine. Il debito pubblico italiano è sostenibile perché, pur essendo aumentato negli ultimi dodici mesi di 26 miliardi esclusi gli interessi, è per lo più in mani domestiche. «Quello francese, al contrario, è aumentato nello stesso periodo di oltre 149 miliardi senza gli interessi, ossia 5,5 volte di più del nostro. E la componente estera è passata dai 679 miliardi del 2009 anni fa a quasi 1.600 miliardi a fine 2023», dice Fortis, a cui abbiamo chiesto di guidarci nell’intricato percorso che determinerà il futuro dell’Italia industriale, oltre il 2025. Che è un anno di cesura perché segna anche dalla fine dell’era degli incentivi a pioggia. Non solo il vituperato Superbonus 110%, ma anche Industria 4.0. Entrambi hanno avuto un costo ancora pesante per le casse dello Stato e, pur avendo contribuito alla ripartenza del Paese nel post Covid, non possono proseguire. Transizione 5.0 – che finora è fermo al palo – non funzionerà allo stesso modo perché non deriva dal bilancio dello Stato ma dal Pnrr ed è quindi soggetto a maggiori vincoli e requisiti che il più delle volte spaventano le imprese.

D: Allora professor Fortis, è proprio il nuovo patto di Stabilità a mettere la parola fine alla stagione degli incentivi a pioggia? Cosa cambia nella pratica?

Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison.

R: Per orientarci, ricordiamo brevemente che il nuovo Patto di Stabilità e Crescita dell’Unione Europea, in vigore dal primo gennaio 2025, impone ai Paesi con un debito pubblico superiore al 90% del Pil di ridurlo in media dell’1% all’anno, e dello 0,5% all’anno per quelli con un debito tra il 60% e il 90%. Per quanto riguarda il deficit, i Paesi che superano il 3% del Pil sono chiamati a una riduzione dello 0,5% annuo, con un periodo transitorio che arriva fino al 2027, durante il quale la percentuale potrà essere ridotta. Queste nuove regole concedono maggiore spazio di manovra, permettendo ai governi di concordare con Bruxelles piani di rientro che vanno da 4 a 7 anni, in cambio dell’attuazione di riforme e investimenti per promuovere la crescita e garantire la sostenibilità dei conti pubblici.

D: Quali sono le conseguenze per l’industria?

R: Il Patto di Stabilità non ha ovviamente impatto diretto sull’industria, essendo un patto di aggiustamento fiscale degli Stati. Ma avrà un impatto significativo sulle politiche economiche nazionali, influenzando le decisioni di spesa e investimento nei prossimi anni.

D: In altre parole, genererà per il nostro Paese una minore capacità di spesa pubblica

R: Sì, è così. L’Italia ha presentato un piano di bilancio con un tetto per la spesa primaria e garantendo un percorso di stabilizzazione del debito pubblico, vidimato dalla Commissione europea. Il piano dell’Italia è conservativo e non lascia spazio a molti stimoli per l’economia reale in termini di investimenti statali. In altri termini, l’impegno preso con l’Europa non lascia spazio per il futuro a bonus come quelli che abbiamo visto in passato per l’edilizia o anche per investimenti in macchinari.

D: Però c’è l’onda lunga degli effetti di questi incentivi che ancora deve trasmettersi in termini di crescita dell’economia e dell’industria

R: Certamente, abbiamo sempre sottotraccia la spesa del Pnrr, i cui effetti saranno visibili dal 2025-2026, a favore delle imprese nazionali che forniscono componenti e materiali per le costruzioni, per esempio. Ma l’epoca degli incentivi a pioggia è conclusa per ora. Anche gli strumenti nuovi già disponibili, come Transizione 5.0, sono impostati con una logica diversa e soggetti a controlli molto più stringenti rispetto alla vecchia Industria 4.0. È ancora un elemento di stimolo, ma come detto il nuovo patto di Stabilità, imponendo ai Paesi piani per l’aggiustamento dei conti pubblici, non lascia spazi di manovra ampi come nel passato.

Dal lato dell’offerta, cioè in termini di valore aggiunto, e quindi di contributo al PIL, il settore delle costruzioni è cresciuto fino al 2023 in maniera impetuosa, +37% rispetto a fine 2019, sei volte la crescita dell’industria manifatturiera (+6%) e nove volte quella del complesso dei servizi (+4%). (Fonte: Confindustria).

D: Forse è questa la ragione per cui Transizione 5.0 sembra finora aver fallito i suoi obiettivi? Sono stati spesi appena 200 milioni sui sei miliardi stanziati: le aziende non aderiscono. Cosa ne pensa?

R: Transizione 5.0 non può che funzionare così. È molto diverso da Industria 4.0 nelle sue varie articolazioni, dalla prima versione del 2016, all’ultima del 2023. Non ci sono più super e iper-ammortamenti per i beni che riguardano investimenti digitali, non c’è più il patent box né crediti per la ricerca. E la ragione è che non è più previsto un finanziamento diretto dello Stato, ma tutto ciò che viene stanziato nella nuova agevolazione è stato recuperato attraverso il Pnrr. Per questa ragione si sono dovute porre limitazioni alle tipologie di investimenti, assicurando che gli stessi implichino risparmi energetici, con controlli molto più stretti rispetto a prima. Non ci si può aspettare da Transizione 5.0 un affollamento di richieste delle imprese come era avvenuto negli anni precedenti con il 4.0. Che è stato uno strumento straordinario ma ha comportato e presenta tuttora, come di recente ha ricordato il Ministro Giorgetti, importanti costi per lo Stato. Non è una cosa che si sente dire spesso, ma iper e super ammortamenti hanno avuto un impatto sui conti pubblici inferiore a quello dei bonus edilizi, ma comunque significativi.

Secondo Fortis gli effetti del Pnrr saranno visibili dal 2025-2026, a favore delle imprese nazionali che forniscono componenti e materiali per le costruzioni, per esempio. (Fonte: Camera dei Deputati).

D: In effetti non si sente dire spesso: le critiche si sono sprecate sui bonus edilizi, per il peso che hanno avuto per le casse dello stato, ma evidentemente non è stata a costo zero neanche Industria 4.0

R: Se andiamo a vedere nei dettagli del Def, c’è una voce che indica le uscite che lo Stato deve affrontare per i bonus edilizi ma anche per Industria 4.0. Quest’ultima ha dato un impulso straordinario alla modernizzazione dell’industria e agli investimenti, in un momento di tassi di interesse peraltro bassi, e con una politica economica di grande stimolo. Questo ha avuto effetti positivi sulla produzione industriale e ha trainato le vendite delle macchine industriali italiane. Tuttavia, è evidente che misure del genere non potevano durare per sempre, proprio a causa dei costi.

D: Allora i bonus sono stati un errore?

R: Niente affatto. Ogni tanto qualcuno vagheggia di misure a costo zero: non esistono. Bisogna sempre fare sforzi per dare impulsi all’economia. E le dirò di più, gli stessi bonus edilizi non erano sbagliati in linea di principio, ma sono stati formulati male. Sono costati troppo, ma certamente hanno garantito una ripresa formidabile dell’Italia nel post-Covid, senza la quale non avremmo oggi conti pubblici così in forma. Siamo passati da un debito/Pil del 154,3% nel 2020 al 134,8% del 2023: il Pil è cresciuto così tanto anche grazie ai bonus edilizi. Si poteva, però, risparmiare qualche decina di miliardi ponendo un tetto di spesa per il Superbonus ed evitando con il Bonus Facciate di creare quelle situazioni di scarsa trasparenza che ci sono state.

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Secpondo Fortis, il debito/Pil continua ad aumentare – sia pure di poco. Ma questo dipende dagli aggiustamenti tra stock e flussi, e dai costi postumi dei Superbonus edilizi. Ma anche se il debito francese è più basso del nostro in rapporto al Pil di una ventina di punti, quello italiano è oggi più solido. (Fonte: Camera dei Deputati).

D: Il governo ha cercato in qualche modo di compensare con strumenti agevolativi diversi che non abbiano impatto sui conti pubblici?

R: L’obiettivo che ha guidato il Mef è stato quello di mettere la parola fine ai bonus, non solo quelli che riguardavano l’edilizia, ma anche quelli che riguardavano le imprese. Si può discutere se questo atteggiamento sia razionale, legittimo o anche conveniente per l’economia. Ma di fatto il Mef ha pensato agli impegni severi che deve affrontare in termini di finanza pubblica. L’escamotage trovato è l’Ires premiale, che è uno strumento di accompagnamento agli investimenti delle imprese che invece di incassare i dividendi li reinvestono. Tuttavia, questa è una misura che non avrà ovviamente un impatto paragonabile a quello generato da Industria 4.0.

D: Quindi in definitiva il suo parere su superbonus e agevolazioni all’industria è del tutto positivo?

R: In quel momento l’alternativa era peggiore. E lo dimostra quanto è accaduto in Francia dove sono stati erogati soldi direttamente alle famiglie, ma l’economia non ha subito un impulso virtuoso. I Superbonus, invece, hanno prodotto investimenti generando indotto manifatturiero: cemento, piastrelle ceramiche, mobili, ecc. hanno avuto benefici. L’approccio dell’Italia è stato completamente opposto da quello francese. Noi abbiamo puntato sugli investimenti; forse avemmo potuto risparmiare 40-50 miliardi evitando gli errori di attuazione, impostazione e controllo, ma non è stato un errore concettuale.

nel 2025-2026 l’Italia produrrà 37 miliardi di avanzo primario, chiudendo in surplus prima del pagamento degli interessi. (Fonte: elaborazione di M. Fortis su dati e previsioni della Commissione Europea).

D: Però, forse l’effetto finale è che noi siamo osservati speciali per quanto riguarda il debito/Pil, mentre la Francia è tutto sommato ancora considerata un Paese virtuoso: i nostri conti pubblici sono davvero così disastrosi?

R: In realtà no: nel 2025-2026 l’Italia produrrà 37 miliardi di avanzo primario, chiudendo in surplus prima del pagamento degli interessi. Non siamo un paese di spendaccioni! Produciamo avanzi primari, ma qualcuno dice che non ne produciamo abbastanza perché non riusciamo a coprire gli interessi. Sono tesi senza senso. Infatti, se producessimo un avanzo primario del 4% torneremmo all’austerità. Bisogna trovare un equilibrio tra rigore e crescita. Ci stiamo arrivando con Giorgetti dopo che ci era già riuscito Padoan.

D: Ma il debito/Pil continua ad aumentare. Non lo ritiene preoccupante?

La Francia non ha obiettivi ragionevoli e come ha detto lo stesso premier in carica Francois Bayrou, il Paese ha da scalare l’Himalaya del deficit, mentre per Giorgetti la strada è impegnativa ma assai più facile.

R: No. Perché è vero che il debito/Pil continua ad aumentare – sia pure di poco. Ma questo dipende dagli aggiustamenti tra stock e flussi, e dai costi postumi dei Superbonus edilizi. Ma anche se il debito francese è più basso del nostro in rapporto al Pil di una ventina di punti, quello italiano è oggi più solido: per il 70% circa è infatti in mani italiane o presso la banca centrale, al contrario Parigi ha quasi il 60% del suo debito in mani straniere. Eppure, è vero, c’è una sorta di miopia: quando a fine novembre il neoletto governo Bernier stava cadendo, S&P ha confermato il rating AA- in vista di un lento consolidamento delle finanze pubbliche. Moody’s a sua volta ha semplicemente declassato il rating della Francia da Aa2 ad Aa3 il 13 dicembre 2024, citando un indebolimento sostanziale delle finanze pubbliche. Ma si tratta comunque di un giudizio molto più generoso di quello che l’agenzia ha sull’Italia (Baa3 contro il BBB di S&P, entrambi con outlook stabile).

D: Da cosa dipende a suo avviso questa miopia delle agenzie di rating?

R: I voti sono basati sulla dimensione del debito/Pil, ma non tengono conto delle caratteristiche di debito e Pil. La Francia non ha obiettivi ragionevoli e come ha detto lo stesso premier in carica Francois Bayrou, il Paese ha da scalare l’Himalaya del deficit, mentre per Giorgetti la strada è impegnativa ma assai più facile. E la ragione è che nel post Covid la Francia ha finanziato a pioggia la spesa pubblica grazie a finanziamenti stranieri: oggi noi abbiamo debito pubblico in mani estere per circa 900 miliardi, cresciuto in un anno di circa 100 miliardi grazie a una maggiore fiducia verso l’Italia (a fine settembre 2024); e possiamo ancora incrementarlo senza sbilanciarci; la Francia è passata dai 679 miliardi di debito estero del 2009 anni fa a quasi 1.600 miliardi a fine 2023. Ed è arrivata al limite.

D: Perché la Francia è arrivata al limite del suo debito sostenibile e invece l’Italia può ancora indebitarsi?

R: Gli stranieri non sono più disposti a finanziare spesa pubblica non produttiva. Lo spread francese è aumentato, ed è chiaro che in questo momento il debito pubblico italiano, pur essendo aumentato negli ultimi dodici mesi di 26 miliardi esclusi gli interessi, è gestito meglio rispetto a quello francese, aumentato nello stesso periodo di oltre 149 miliardi senza gli interessi, ossia 5,5 volte di più del nostro. L’unico modo per la Francia di risollevarsi sarebbe un periodo di austerità, ma non è possibile perché non c’è una maggioranza politica solida e nessuno si espone oggi per tagliare le spese perdendo consensi. Anche il primo ministro Bayrou oggi in carica, salvo un miracolo, è destinato al fallimento, come il predecessore.

D: Però l’Italia paga tanti interessi sul debito pubblico e questo ne provoca un aumento più rapido di quello che avverrebbe strutturalmente. È un elemento di fragilità?

R: È vero che gli interessi accelerano il ritmo a cui aumenta il debito pubblico. Ma questo non ci rende fragili per una ragione: circa il 70% degli interessi li paghiamo a noi stessi o alla Banca Centrale; quindi, rendiamo più ricchi i detentori dei Btp, che sono per lo più famiglie, imprese e banche. Si ipotizza spesso che le banche italiane siano fragili perché detengono titoli di Stato italiani, ma è un discorso senza fondamento: sarebbero fragili se detenessero Oat, titoli di Stato francesi. Invece, detenendo Btp, incassano interessi e hanno guadagnato, mentre chi ha puntato su Bund e Oat ha carta che rende poco ed è oggi con la Francia al centro di un ciclone. La Francia deve pagare metà degli interessi a stranieri, e siccome la Francia ha anche una posizione patrimoniale sull’estero negativa per 800 miliardi, come la Spagna, rischia una crisi di fiducia. La posizione patrimoniale sull’estero dell’Italia è invece positiva per 250 miliardi. Abbiamo un avanzo di bilancio nei pagamenti con l’industria, con scambio di merci, e anche 20 miliardi di saldo positivo del turismo, che determinano la posizione finanziaria positiva.

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D: Pesa su questo equilibrio del debito italiano, oltre all’avanzo di bilancio nei pagamenti con l’industria, anche il risparmio delle famiglie?

R: La ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane è pari al 216% del PIL, in Francia è al 167% e in Germania al 151%. Abbiamo una ricchezza interna che direttamente (con le famiglie e le imprese) o indirettamente (attraverso banche, assicurazioni o fondi che detengono e gestiscono il risparmio privato) investe nei titoli pubblici e da gennaio ci sono stati anche acquisti di BTP per 90 miliardi dall’estero: gli stranieri stanno tornando, ed è un fatto positivo. Il debito pubblico non è una buona cosa, ma se riesci a finanziarlo in larga parte da solo e con una quota accettabile anche grazie agli stranieri è meglio. In altre parole, l’Italia si può permettere l’attuale debito, pur molto oneroso: avendo i soldi, riusciamo a mantenerlo.

D: Allargando lo sguardo oltre l’Europa, un altro tema chiave destinato a indirizzare i prossimi mesi è quello americano. Con la rielezione di Donald Trump torna la spada di Damocle dei dazi: quali scenari possibili per l’industria europea e come l’Italia può prepararsi?

R: Qui siamo ancora nell’ambito dell’imponderabile. Siamo nel momento precedente all’estrazione della lotteria: può uscire qualunque numero. La minaccia dei dazi è uno strumento che Trump usa e ha sempre usato a scopi negoziali, per trarre vantaggio da una posizione di forza. Non li applicherà sicuramente con la forza con cui li ha proclamati in campagna elettorale mentre in questi giorni è arrivato persino a chiedere al Canada di farsi annettere. Sono boutade: ma l’economia americana è aperta e ha bisogno di importazioni e degli investimenti che gli americani hanno fatto all’estero per mantenere la produzione in Usa. Un conto è spararle grosse, un altro è vedere come tenere tutti sotto una coperta corta. Non si può avere il dominio su IA e quantum computing senza avere la libertà di comprare componenti e materiali dall’Asia.

D: In ogni caso, anche una versione morbida della politica tariffaria potrebbe generare un sempre maggior isolamento dell’Europa e danni all’industria, anche italiana.

La minaccia dei dazi è uno strumento che Trump usa e ha sempre usato a scopi negoziali, per trarre vantaggio da una posizione di forza. Non li applicherà sicuramente con la forza con cui li ha proclamati in campagna elettorale.

R: È probabile che verranno applicati dazi opportunistici, come quelli sull’acciaio indiano. Sono cose che creano asimmetrie, per la rapidità con cui gli Usa intervengono nei settori di base, lasciando l’Europa scoperta. Questo è già avvenuto in passato. Potrebbe accadere che vengano imposti dazi forti sull’industria dell’auto, che non è strategica per gli Usa. Meno probabile che vengano penalizzati i componenti che servono per produrre smartphone. Ovviamente applicare dazi all’auto, che è un’industria scomparsa in Usa, darebbe grande fastidio alla Germania e all’Europa, specie in un momento in cui l’industria tedesca è collassata e c’è confusione strategica sull’auto elettrica. La simpatia tra USA e Italia potrebbe portare un atteggiamento di riguardo verso i prodotti italiani.

D: Diciamo che l’insediamento di Trump potrebbe essere addirittura positivo per l’industria domestica. Ma in generale quali sono gli elementi dirompenti legati al nuovo corso degli Usa? Le aspettative sulla fine della guerra in Ucraina sono elevate

R: La vera scommessa che potrebbe determinare un cambiamento è proprio legata alla guerra russo-ucraina. La fine del conflitto potrebbe generare un effetto positivo sull’economia europea coinvolta nella ricostruzione dell’Ucraina e nell’attenuazione degli elementi di tensione degli ultimi anni. Il nostro destino dipende di fatto da un intervento di geopolitica più che di politica economica. Poi c’è da dire che il governo Biden non ha generato sconquassi nell’economia Usa, l’unico sconquasso è anche lì, come in Francia, sui conti pubblici. Ma un conto sono gli Usa, che stampano dollari e possono fare ciò che vogliono, un conto è la Francia. Non importa se il debito USA arriverà tra poco al 130% del Pil: è accettato, come avviene per il Giappone che ha un livello di debito/Pil del 250% ma non viene penalizzato dai rating perché il debito del Giappone è un fatto interno.

D: L’Europa è sicuramente penalizzata anche dall’assenza di coesione? Perché l’unione economica non decolla?

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea. Secondo Fortis, Von der Leyen ha fatto disastri enormi sul green deal e sull’auto elettrica: va fatta una correzione senza perdere la faccia, ma è impossibile finché non ci sarà un governo forte in Germania e finché la Francia resterà così instabile.

R: L’Europa è molto debole proprio in un momento in cui Trump sta cercando una leadership forte e picchia i pugni sul tavolo. Non è riuscita a compattarsi neanche quando aveva leader nazionali importanti e autorevoli, come la Merkel in Germania che avrebbe potuto guidare il Continente in modo corretto e lungimirante. Oggi Berlino non ha un esecutivo forte e in Francia il governo sta in piedi per miracolo. Se i due Paesi più influenti non riescono ad avere leader che trasmettano segnali alla Commissione, questa resta in attesa. L’Unione economica sarebbe importante anche ai fini fiscali, ma siamo lontanissimi. C’è nebbia sul green deal, sull’auto elettrica e sul futuro a breve termine. Von der Leyen ha fatto disastri enormi sul green deal e sull’auto elettrica: va fatta una correzione senza perdere la faccia, ma è impossibile finché non ci sarà un governo forte in Germania e finché la Francia resterà così instabile.

D: Alla fine l’Italia come ne uscirà?

R: Il 2025 sarà un anno difficile. L’Italia ha motivo di sconfortarsi vedendo la Germania in ginocchio: parte del Nord-Est come noto è strettamente interconnessa con l’economia tedesca. La situazione dell’export è condizionata dai mercati di sbocco: per noi la Germania è il primo, la Francia il secondo e gli Usa il terzo. Le previsioni sono nebulose: non ci aspettiamo un 2025 scoppiettante, ma l’Italia è stata molto sottovalutata e non si è riusciti a percepire la capacità di migliorare e recuperare in questi anni. Industria 4.0, diversificazione del sistema produttivo e reazione post-Covid sono fatti sostanziali di cui neanche noi abbiamo grande consapevolezza.

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D: Quali sono questi elementi di forza di cui prendere consapevolezza per ripartire?

R: Se escludiamo l’auto, che pesa per l’8% nel commercio mondiale, e quindi è importante ma non è tutto, nel restante 92% del commercio mondiale, siamo il quarto esportatore al mondo (eravamo solo il nono dieci anni fa), e per la prima volta nella storia contemporanea nel primo semestre del 2024 abbiamo superato il Giappone anche nell’export totale, sia pure solo temporaneamente. Significa che l’economia italiana è molto forte anche in un momento in cui il commercio intra-europeo è collassato. Anche se esportiamo meno in certi comparti, abbiamo altri settori che trainano: yacht, navi da crociera, turismo, farmaceutica. Abbiamo superato gli USA nell’export di farmaci confezionati. Tutti questi elementi, insieme alla consistenza e alla qualità dei conti pubblici, lasciano intravedere per il futuro adeguate capacità di resilienza per la nostra economia.



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