Placidi gruppi di mammut con piccoli al seguito, cavalli selvatici che a testa bassa strappano senza fretta l’erba brinata dal gelo; poche ore prima, un branco di leoni delle caverne pasteggiava sulla carcassa di un bisonte della steppa ucciso durante un inseguimento di gruppo. Poi la vista in lontananza di una femmina di orso delle caverne in marcia con il suo cucciolo e l’incontro con due rinoceronti lanosi un po’ irritati dalla presenza del nostro fuoristrada: saranno scene possibili nel Parco glaciale della Jacuzia, ovvero il Parco Nazionale del Pleistocene!
Potremo vederli, ci assicurano, fra qualche anno. Non oltre il 2028, grazie a un’operazione detta di “de-estinzione” o di “risurrezione biologica”.
Il Parco Nazionale del Pleistocene
Per il primo parco vivente di animali preistorici del mondo, la Russia ha stanziato 6 milioni di dollari, così da ingrandire il suo centro di clonazione e riuscire nell’intento.
Ritenuto possibile perché la distanza minima fra noi e gli animali dell’era glaciale è di “soli” 12 mila anni (mentre dai dinosauri ci dividono almeno 65 milioni di anni ed è ben difficile recuperarne il Dna).
«La Jacuzia russa è il luogo perfetto per questo genere di ricerche» spiega Lena Grigorieva, dell’Università federale nord-orientale russa (efu) a cui è stato affidato il progetto. «Dal nostro permafrost sono emersi, negli anni, l’80% degli animali del Pleistocene trovati congelati, con le parti molli (muscoli, pelo, organi interni) eccezionalmente conservate. Da questi tessuti si può ottenere la mappatura del Dna di diverse specie e poi clonarle: non esiste un materiale così unico in nessun’altra parte del mondo».
Dove è stato raccolto il Dna dei mammut?
Per esempio, sono stati ritrovati congelati in Jacuzia diversi adulti di mammut e persino cuccioli, come la femmina scoperta nel maggio del 2007 da un pastore di renne e battezzata Ljuba. Lunga appena 130 cm e pesante una cinquantina di chili, si presentava, come annunciato da Alexei Tikhonov, direttore dell’Istituto di zoologia dell’Accademia delle scienze russe «a parte la coda smozzicata, in uno stato di conservazione pressoché perfetto».
Oppure i due cuccioli di leone delle caverne, Uyan e Dina, ritrovati nell’estate del 2015, con il pelo ancora lucente: “i felidi preistorici meglio conservati al mondo”, ha sottolineato l’Accademia delle scienze russa.
Come si crea un mammut da zero
La tecnica di clonazione si basa sulla creazione in vitro dell’embrione dell’animale estinto a partire dalla cellula uovo di una specie affine vivente in cui si inserisce il nucleo dell’estinto, che contiene quasi tutte le informazioni genetiche per realizzare quella specifica forma di vita.
L’embrione ottenuto viene poi impiantato in una madre surrogata. Per esempio, si prevede di collocare un embrione di mammut (Mammuthus primigenius) nell’utero di una femmina di elefante asiatico (Elephas maximus, la specie più simile, con sole 44 differenze genetiche). O l’embrione di un leone delle caverne (Panthera leo spelaea) in quello di una leonessa africana (Panthera leo) e così via.
Quali animali preistorici sono stati già clonati?
La dimostrazione che questa possibilità esiste viene dalla clonazione già realizzata per il gaur (Bos gaurus) e il banteng (Bos javanicus), due specie attuali di bovidi selvatici dell’Asia, in pericolo di estinzione.
Un gaur clonato anni fa morì due giorni dopo la nascita, ma un banteng nato allo stesso modo vive dal 2006 allo zoo di San Diego: i ricercatori americani della Advanced Cell Technology del Worcester (Massachusetts) avevano estratto il Dna dall’epidermide congelata di un banteng morto nel 1980 per trasferirlo nella cellula uovo di una vacca d’allevamento. Avevano ottenuto 30 embrioni che impiantati nell’utero di altrettante mucche diedero 16 gravidanze di cui due portate a termine. Con un piccolo che morì precocemente e un altro cresciuto senza problemi.
Come riprodurre le caratteristiche del mammut
Una pratica intermedia consisterà nel prendere da una cellula somatica (sono le cellule che formano il corpo di un organismo) dell’animale estinto, singoli geni che determinano singole caratteristiche fisiche, da inserire nella cellula uovo dell’animale affine.
In tal modo si possono ricreare le zanne ricurve, il pelo lanoso e la testa a torre del mammut in un elefante asiatico; le dimensioni maggiori, la coda col ciuffo e la mancanza di criniera anche nei maschi, tipiche del leone delle caverne, in un leone africano; “vestire” un rinoceronte di Sumatra da rinoceronte lanoso e così via.
Già nel 2015 il genetista George Church, dell’università americana di Harvard, ha combinato il Dna di un mammut con il genoma dell’elefante asiatico ottenendo un embrione vitale.
Dove sarà il Parco nazionale del Pleistocene
Il Parco nazionale del Pleistocene, dove queste specie andranno a vivere, si trova nell’estremità orientale della Jacuzia, a pochi chilometri dalla cittadina di Cerskij. È nato nel 1996 su idea del geofisico russo Sergey Zimov, con lo scopo di ricostruire l’ecosistema del Pleistocene, in particolare la steppa dei mammut, caratterizzata da vaste praterie.
Le praterie al posto delle piante
Nel parco (all’inizio erano solo 50 ettari sperimentali, oggi migliaia di ettari), si è cercato di sostituire con le praterie le distese di alberi e arbusti che, trattenendo calore e umidità, limitano il raffreddamento del terreno e contribuiscono all’effetto serra.
I mammut al pascolo, in passato, impedivano la crescita delle piante “serra”. Che poi, estinti loro, si sono diffuse. Ma limitarle di nuovo a beneficio della prateria, consente di mantenere il terreno abbastanza freddo da evitare lo scioglimento del permafrost dovuto al riscaldamento globale, che a sua volta libera altro gas serra.
Quali animali sono stati già reintrodotti nel Parco?
Nel Parco del Pleistocene sono stati reintrodotti per ora buoi muschiati (Ovibos moschatus) dall’Isola di Wrangel, bisonti europei (Bison bonasus) dalla Polonia e anche alci e yak (Alces alces e Bos grunniens). Mancano i veri protagonisti dell’Era glaciale.
Soprattutto i mammut, che potrebbero contribuire, come un tempo, al mantenimento della steppa. Su questo punto si trovano d’accordo anche i ricercatori di Harvard. «Se in futuro riuscissimo a fare pascolare in Siberia 80mila mammut», calcola Church, «daremmo un grosso colpo al riscaldamento globale».
È giusto far rivivere specie estinte?
L’idea di fare rinascere specie estinte avrebbe quindi un valore ecologico. Ma è eticamente giusto cercare di cambiare il film dell’evoluzione?
Le prima teoria sull’estinzione degli animali nell’Era glaciale
Forse occorre prima valutare le teorie che spiegano l’estinzione degli animali dell’Era glaciale. La prima, vede come responsabile il riscaldamento del pianeta, dopo l’ultimo periodo glaciale (Würm), dovuto al variare dell’inclinazione dell’asse terrestre. Il nuovo clima provocò lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento di 20 metri del livello dei mari e barriere geografiche. Molte specie non si adeguarono al drastico cambiamento, estinguendosi.
Le seconda teoria sull’estinzione degli animali nell’Era glaciale
La seconda teoria chiama in causa l’Homo sapiens che, proveniente dall’Africa, aveva comunità più organizzate ed efficienti di quelle dei neanderthaliani già residenti in Eurasia: così attrezzato, il sapiens cacciò senza tregua gli animali di grossa taglia fino alla loro estinzione.
Le terza teoria sull’estinzione degli animali nell’Era glaciale
Vi è poi una terza ipotesi che considera il concorso di entrambe le cause. Se quindi l’homo sapiens è almeno in parte responsabile di quelle estinzioni, quando la caccia era l’unico modo per sopravvivere, oggi con la genetica potrebbe fare un gesto riparatore.
E se invece proteggessimo gli animali già in vita?
A margine, varrebbe comunque la pena di chiedersi se non sia più etico e se, in generale, non abbia più senso dal punto di vista del rispetto degli ecosistemi cercare di proteggere dall’estinzione gli animali in vita oggi, piuttosto che riesumare la fauna preistorica.
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