chi paga e come il welfare italiano

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Roma, 16 gennaio 2025 – Torna in primo piano l’esigenza strutturale di separare la previdenza dall’assistenza. A spingere in questa direzione gli ultimi numeri che emergono dal Dodicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentato oggi alla Camera. Nel 2023 l’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 583,712 miliardi di euro, con un incremento del 4,32% rispetto all’anno precedente (24,2 miliardi): la spesa per prestazioni sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 50,93%. Rispetto al 2012, e dunque nell’arco di poco più di un decennio, la spesa per welfare è aumentata di 151,448 miliardi strutturali (+35%); aumento ascrivibile soprattutto agli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 137,25% (+78 miliardi) a fronte dei “soli” 56 miliardi della spesa previdenziale (+26,53%) e del 29,26% del nostro Prodotto Interno Lordo. Scendiamo nel dettaglio del Report. 

L’andamento della previdenza obbligatoria

Le entrate contributive tornano a crescere per il terzo anno consecutivo, dopo il crollo causato dalla pandemia e dalle misure di lockdown. Grazie anche all’effetto dell’incremento di salari e tassi di occupazione, le entrate salgono del 5,22% toccando quota 236,68 miliardi di euro, dato ampiamente superiore a quello pre-pandemico. Il saldo – comunque negativo – tra entrate e uscite si attesta dunque a 30,42 miliardi: a pesare sul deficit del sistema pensionistico soprattutto il disavanzo della gestione dei dipendenti pubblici, che evidenzia da sola un passivo di oltre 44 miliardi (erano 33 prima della pandemia). Quattro, invece, le gestioni obbligatorie Inps con saldi positivi: i lavoratori dipendenti che – al netto delle gestioni speciali poi confluite nel FPLD – presentano un attivo di 15,107 miliardi di euro; i commercianti, con un attivo di 1,154 miliardi; i lavoratori dello spettacolo ex ENPALS, con 468,71 milioni di euro, e la Gestione Separata dei lavoratori parasubordinati. Positivo anche il saldo previdenziale delle Casse privatizzate dei liberi professionisti che, giovando come i subordinati di un buon rapporto attivi/pensionati, sale a 4,318 miliardi di euro. L’apporto complessivo delle gestioni attive, pari a 29,675 miliardi, risulta dunque essenziale per il contenimento del deficit pensionistico che, diversamente, supererebbe i 60 miliardi di euro.

Nel complesso, la spesa pensionistica di natura previdenziale comprensiva delle prestazioni IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti) è ammontata nel 2023 a 267,107 miliardi di euro, con un incremento di 19,53 miliardi (+7,88%) sul quale hanno pesato in maniera sostanziosa sia l’aumento del numero di pensionati (+98.743 rispetto al 2022) sia la rivalutazione degli assegni di importo più basso all’inflazione (+7,3%, ricalcolato all’8,1% per le minime). L’incidenza sul PIL è pari al 12,55%; percentuale che scende all’11,48%, valore più che in linea con la media Eurostat, se si escludono dal calcolo GIAS dei dipendenti pubblici, maggiorazioni sociali e integrazioni al minimo per il settore privato (22,809 miliardi in totale), spese che la stessa INPS classifica in realtà come assistenziali. 

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“La percentuale cala addirittura all’8,56% escludendo anche i circa 62,2 miliardi di imposte (IRPEF) che in molti Paesi dell’Unione o di area OCSE sono molto più basse, quando non del tutto assenti, sulle pensioni. Un “esercizio” di calcolo – ha spiegato il professor Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – tutt’altro che sterile se si considera che la corretta determinazione di questi dati è fondamentale per evitare che eccessive sovrastime influenzino negativamente le agenzie di rating o convincano l’Europa a imporre tagli alle pensioni che, come evidenziano questi numeri, presentano invece una spesa tutto sommato sotto controllo”. Come sottolinea il Rapporto, stupiscono allora ancora di più i dati comunicati dalle nostre istituzioni in sede europea, con i valori Eurostat sul 2021 (ultimi disponibili) relativi a pensioni di vecchiaia, anticipate e superstiti che ammontano per l’Italia al 16,30%, contro il 12,90% della media UE.

Le principali voci della spesa assistenziale italiana 

Al 2023 risultano in pagamento 3.845.483 trattamenti di natura interamente assistenziale (invalidità civile, indennità di accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) per un costo totale annuo di 23,013 miliardi, in costante aumento malgrado il calo – fisiologico e costante – delle pensioni di guerra. Nello stesso anno, sono state poi erogate altre 3.759.126 prestazioni parzialmente assistenziali (maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo, importo aggiuntivo), di cui 2.259.766 integrazioni al trattamento minimo. Tenendo conto che uno stesso soggetto può essere titolare di più prestazioni, al netto delle duplicazioni e non considerando la quattordicesima mensilità, i pensionati totalmente o parzialmente assistiti sono dunque 6.556.991, vale a dire il 40,40% del totale.

Stima che oltretutto appare agli estensori del Rapporto, sicuramente in difetto, se si tiene conto di ulteriori prestazioni come la pensione di cittadinanza o, ancora, di  quelle categorie di pensionati che, per età e anzianità contributiva, possono beneficiare anche separatamente di un’ulteriore prestazione assistenziale. “Dovrebbe quantomeno far riflettere il fatto che un Paese del G7 come l’Italia abbia erogato forme di assistenza al 40% dei suoi pensionati”, puntualizza Brambilla, coordinatore della ricerca che, nel corso del dibattito non ha oltretutto mancato di ricordare come, a differenza delle pensioni finanziate dai contributi sociali, questi trattamenti gravano completamente sulla fiscalità generale, senza neppure essere soggetti a tassazione. Se poi si considerano anche il sostegno a lavoratori attivi, e quindi forme di cassa integrazione, NASpI e così via, lo Stato italiano nel solo 2023 ha dato assistenza a circa 12 milioni di connazionali, una situazione insostenibile dal punto di vista socio-economico e che limita fortemente la crescita del Paese. 

In linea con le precedenti pubblicazioni, anche la nuova edizione del Rapporto suggerisce allora, innanzitutto, una corretta separazione tra previdenza e assistenza, e quindi una razionalizzazione della spesa assistenziale, che ormai da troppo tempo appesantisce le finanze statali, generando debito e sottraendo risorse a investimenti e sviluppo. “Ecco perché il tema dell’adeguata comunicazione di questi dati non riguarda solo il dialogo con le istituzioni europee – ha spiegato Brambilla – ma l’intero Paese, ormai assuefatto “all’assistenza di Stato”, anche per colpa delle promesse di una politica in perenne campagna elettorale e di misure a sostegno del reddito o volte a contrastare l’esclusione sociale finite impropriamente sotto il capitolo pensioni”. Tanto più che, mentre le ultime riforme hanno colto l’obiettivo di stabilizzare la spesa pensionistica, “le uscite per assistenza – rileva il professore – sono cresciute di anno in anno complici prestazioni che, senza alcuna contribuzione aggiuntiva, si sono sommate e sedimentate nella legislazione, senza che nessuno ne abbia mai previsto il riordino. Un quadro cui si aggiunge l’inefficienza della macchina organizzativa, ancor oggi priva di una banca dati dell’assistenza e di un’anagrafe centralizzata di lavoratori attivi previste da norme del 2004 e del 2015: eppure, solo un monitoraggio efficace tra i diversi enti erogatori (Stato, Regioni, Comuni, comunità), insieme a prove dei mezzi più consistenti di un Isee facilmente raggirabile, può permettere di contenere i costi, aiutando con servizi e strumenti adeguati esclusivamente quanti hanno davvero bisogno.



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