i 75 anni di Dino Meneghin

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Dino Meneghin, campione di basket e icona dello sport italiano – Ansa

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Bastano due parole per descrivere una leggenda: Dino Meneghin. Non ha bisogno di presentazioni l’uomo più vincente della storia del basket italiano che il 18 gennaio compie 75 anni. Una vita sotto canestro per una figura iconica di tutto lo sport italiano. Non azzardatevi però a definirlo “monumento”. «Sono il luogo dove i piccioni fanno i loro bisogni» è la sua ormai proverbiale risposta graffiante. Così con ironia e “leggerezza”, come ama ripetere lui, ha scritto il proprio nome nella Basketball Hall of Fame: il primo giocatore italiano a ricevere il prestigioso riconoscimento mondiale, un tributo che ricorda ancora con emozione (« per un giocatore di basket è come per un pittore avere il proprio quadro appeso al Louvre o al Prado», ha spiegato alla Gazzetta dello Sport). Una carriera strepitosa con l’approdo in Serie A già a 16 anni e l’uscita di scena dopo ben 28 stagioni ad alto livello alla ragguardevole età di 44 anni. Un palcoscenico condiviso in una storica partita anche con suo figlio Andrea (che l’ha reso poi nonno di due nipoti). Oggi può godersi una bacheca sterminata in cui brillano 12 scudetti (7 con Varese, 5 con Milano) e 7 Coppe dei Campioni (5 con Varese, 2 con Milano) con ben 10 finali consecutive della massima competizione continentale (tutte con Varese). Senza dimenticare in maglia azzurra l’argento olimpico (nel 1980) e la medaglia d’oro (1983) e due di bronzo ai campionati europei. Un gigante rimasto umile, con la palla a spicchi nel sangue, consapevole di aver già ricevuto tanti doni, soprattutto «aver praticato per tanti anni uno sport che ho amato e che amo ancora tanto».

Se si guarda indietro vede trofei, primati e vittorie epiche… Qual è la soddisfazione più grande?

«Tutto il percorso che ho fatto. Ho avuto la fortuna di giocare con grandi squadre, grandi allenatori, grandi compagni di squadra che mi hanno reso la vita più semplice dal punto di vista del gioco e sicuramente entusiasmante per i risultati».

A scorgere per primo il suo talento fu il coach potentino Nico Messina (scomparso nel 2005).

«È stato l’allenatore che mi ha fatto capire quanto fosse bello e divertente giocare a pallacanestro. Era un entusiasta, ti insegnava le cose senza farle pesare. Non ha mai alzato la voce, sapeva come far gruppo… Grazie a lui abbiamo vinto il primo scudetto a Varese, quando tutti ci davano per retrocessi…».

Tra i momenti più emozionanti immagino ci sia l’aver giocato una partita di Serie A con suo figlio Andrea, sebbene da avversario.

«Lui aveva sedici anni ed esordiva in campionato e io ne avevo 40 e giocavo a Trieste. Quando sono entrato in campo mi sono sentito subito vecchissimo al vederlo sgambettare già in Serie A. Ho provato una grande soddisfazione per lui, perché s’era guadagnato il posto per la sua bravura e non perché si chiamasse “Meneghin”, cosa che poi ha dimostrato anche in tutti gli anni a seguire».

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Se c’è un rammarico, ha detto di recente, è quello di aver vissuto poco la sua infanzia.

«Sì perché io giocavo a Milano e lui è cresciuto a Varese. Quando ero libero io al mattino lui andava a scuola. Tra allenamenti, partite e tante trasferte c’è stato poco tempo per stare insieme. Però devo dire che ci siamo rifatti dopo e anche adesso».

Sul campo l’unico rimpianto è la Nba.

«Ero il prescelto di Atlanta nella stagione 69-70 ma l’ho appreso dai giornali mesi dopo. Oggi sappiamo tutto della Nba, allora era come parlare di Marte: non c’erano filmati, circolavano poche notizie… Nel 1974 fui invitato dai New York Knicks per la Summer League, però mi ero appena rotto il menisco e non riuscii a partecipare».

Oggi la guarda la Nba o preferisce l’Eurolega?

«L’Eurolega senz’altro, perché vedo ancora un gioco di squadra. In Nba è tutto un “uno contro uno” con la ricerca esasperata del tiro da 3 punti. Una tendenza che purtroppo vedo adesso anche nel campionato italiano. Io ho giocato tanti anni quando non c’era il tiro da tre e mi piaceva molto di più perché penso che il gioco della pallacanestro sia simile a un’orchestra sinfonica: ogni tanto c’è il solista che fa un assolo di violino però rimane un gioco corale».

Chi lo vince lo Scudetto quest’anno?

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«All’inizio del campionato avrei detto Milano e Bologna perché sono le due corazzate. Quest’anno però anche per via dei tanti infortuni, complici le tante partite anche in Eurolega, sono emerse delle bellissime novità come Brescia, Trento, Trapani e Trieste stessa. Ai playoff però sarà tutto diverso, chi arriverà fisicamente meglio potrà arrivare fino in fondo».

La Nazionale non vince da tanti, troppi anni.

«Soffriamo la concorrenza di altri Paesi che sono cresciuti tantissimo. Ma il problema nostro è che ci sono tantissimi stranieri. Società e allenatori devono fare in modo che i giocatori italiani abbiano più minuti per emergere e facciano meno panchina. La legge Bosman ha stravolto tutto, ma lavoriamo poco sui vivai e nelle scuole siamo ancora poco presenti».

Per la sua formazione, nello sport come nella vita, lei riconosce l’influenza di un luogo decisivo.

«L’oratorio. È stato fondamentale sia nel mio piccolo paese (Alano di Piave, nel bellunese) che poi a Varese. Per me e mio fratello un luogo di ritrovo essenziale per le amicizie, un punto di aggregazione fantastico. Quando giocavo alla Robur et Fides di Varese prima di scendere in campo la domenica mattina la squadra si ritrovava alla Messa. Un appuntamento che mi ha segnato».

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«Da allora la spiritualità è sempre stata presente nella mia carriera. Anche quando non riuscivo la domenica ad andare a Messa, il tempo per la preghiera lo trovavo comunque in pullman o sull’aereo, in macchina come a casa. Se lo si vuole il tempo e lo spazio per pregare lo trovi sempre. La fede per me è rimasta una dimensione importantissima».

Come vorrebbe essere ricordato da chi non l’ha mai vista giocare?

«Come un uomo-squadra. Non mi interessavano i primati personali, mi sono sempre messo a disposizione della squadra per far sì che l’obiettivo principale fosse vincere insieme. Non tutti possono segnare 30 punti a partita, però ci sono mille modi per rendersi utili in campo. Consapevoli che l’errore fa parte del gioco, bisogna sempre provarci con coraggio e il massimo impegno. “Rispetto per tutti e paura di nessuno”, questo è sempre stato il mio motto».





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