Per capire cosa mangeremo nel 2050, occorre considerare chi e come produrrà il nostro cibo

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L’annata olearia 2024 lancia un campanello d’allarme: nella Valle del Belice, a Castelvetrano, la produzione di olive è calata del sessanta per cento a causa del caldo eccessivo e della siccità. Pasquale Bonsignore, che con Incuso Lab sta provando a ridisegnare nuovi processi produttivi comunitari nel cuore della Sicilia, avverte che lo stress delle piante potrebbe compromettere anche il raccolto del 2025. Questo scenario non solo minaccia un pilastro della dieta mediterranea come l’olio extravergine, ma ci obbliga a riflettere sul futuro dell’alimentazione.

Per capire cosa mangeremo nel 2050, occorre considerare chi e come produrrà il nostro cibo. Il cambiamento climatico ha già impatti devastanti sull’agricoltura, ma anche l’evoluzione demografica giocherà un ruolo decisivo. Alessandra De Rose, docente all’Università La Sapienza e autrice di un saggio per l’ebook “Cibo 2050” (a cura dell’Osservatorio Cirfood District), sottolinea che la popolazione mondiale raggiungerà i dieci miliardi entro il 2050, mentre in Italia aumenteranno famiglie monogenitoriali e anziani, con un cambiamento delle abitudini alimentari. La contaminazione tra culture porterà arricchimento culinario, ma conflitti e disuguaglianze potrebbero complicare l’accesso al cibo di qualità.

Anche la tecnologia avrà un ruolo chiave secondo gli esperti che hanno contribuito alla stesura del rapporto: si parla di carne coltivata, vertical farming, ogm di nuova generazione e intelligenza artificiale. Alex Davisson di Plug and Play Ventures spiega che l’AI può analizzare preferenze alimentari e trend, ottimizzando prodotti e strategie di mercato. Tuttavia, Sara Roversi del Future Food Institute insiste sull’importanza di educare i consumatori sugli impatti ambientali e sociali delle loro scelte alimentari.

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Forse proprio per questo una riflessione in più sul consumo di acqua e energia che la tecnologia come l’IA genera andrebbe fatto. Così come sulla proprietà dei semi – e quindi sulla concentrazione di potere – in generale e in particolare quando si parla di Crispr (acronimo di clustered regularly interspaced short palindromic repeats), ovvero dei nuovi Ogm, una tecnologia che si sta tentando di liberalizzare in Italia ma verso la quale c’è un certo scetticismo specialmente nel mondo contadino. Le preoccupazioni riguardano i brevetti ma anche questioni sanitarie e ambientali. In particolare, c’è il problema della «biocontaminazione che questi Ogm non tracciati possono causare e l’impossibilità per i consumatori di evitarli nelle loro scelte di acquisto, come cercano di spiegare Francesco Piané e Stefano Mori della ong Crocevia nel loro libro “Perché fermare i nuovi Ogm”.

Del loro ruolo, soprattutto dei più giovani, nell’orientare le strategie di produzione del cibo ne parla Claudia Sorlini, professoressa emerita dell’Università degli studi di Milano: «Il vantaggio dell’alimentazione è che consente di associare un beneficio individuale (il benessere e la salute) con un beneficio collettivo (l’attenzione all’ambiente e alla dimensione sociale, oltre alla lotta agli sprechi)». In queste circostanze è più facile che il consumatore, opportunamente informato, faccia scelte sostenibili. «Oggi essere un’azienda attenta all’ambiente ha un peso etico in sé, ed è attraente per il consumatore. Sono ragioni diverse, dunque, ma tutte valide». Di conseguenza, anche le nuove tecnologie che si diffonderanno maggiormente nei prossimi anni saranno guidate in funzione della domanda del consumatore.

Se molti degli intervistati considerano la tecnologia il Caronte della futura transizione alimentare, c’è anche chi prova a superare l’antinomia proponendo le soluzioni nature-based, come quelle agro-ecologiche o di agricoltura rigenerativa, che sembrano rivelarsi particolarmente efficaci, portando con sé l’eterna esperienza della natura. Tra questi c’è la stessa Sorlini che evidenzia come l’agroecologia non sia una certificazione (anche se include l’agricoltura biologica, codificata da anni dalla Comunità Europea) ma rappresenta un modello sempre più richiesto e articolato, che implica l’utilizzo di sistemi di gestione e di tecniche agricole che rispettano la natura, l’ambiente e le persone che compongono la filiera produttiva.

Tornando alla domanda iniziale – cosa mangeremo nel 2025? – alimenti come olio d’oliva, cioccolato e caffè potrebbero non sparire, ma certamente cambiare. La questione non riguarda solo la disponibilità di questi prodotti, ma anche il loro impatto sul paesaggio e sull’ecosistema. Gran parte dell’ambiente che ci circonda, così come i nostri immaginari collettivi, è influenzata da chi produce il cibo, su piccola o grande scala. Le immagini aeree di George Steinmetz, scattate in oltre trentasei Paesi, raccontano con forza visiva il peso del modello agricolo intensivo.

Questo modello, pur sfamando una popolazione in continua crescita, non è riuscito a ridurre la fame nel mondo. Secondo il Rapporto Globale sulle Crisi Alimentari (Global Report on Food Crises) della Fao, nel 2023 circa 282 milioni di persone in 59 Paesi hanno sofferto di fame acuta, un dato in aumento rispetto all’anno precedente.

Nonostante il mondo produca risorse sufficienti per nutrire tutti, la loro distribuzione rimane ineguale. Come evidenzia la professoressa De Rose, una delle sfide principali è l’uso delle risorse agricole. Ad esempio, nell’Unione Europea il settanta per cento della superficie agricola viene utilizzato per produrre mangimi e foraggio per gli animali, piuttosto che alimenti destinati direttamente alle persone, secondo i dati di Greenpeace. Ripensare i sistemi di produzione e distribuzione alimentare sarà quindi cruciale per affrontare le sfide future.

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