Salvare le tradizioni arbëreshë

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Dal fillilet, la pasta fatta in casa lavorata col ferro di calza per poter accogliere il sugo di castrato, alle ngjalë, cioè le anguille. Questi sono due dei piatti natalizi della tradizione arbëreshë in Calabria, ricca di usi e costumi che ancora oggi vengono rispettati. Arrivati dalla regione albanese dell’Epiro tra il XV e il XVIII secolo, a seguito della morte del loro condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg e dell’occupazione ottomana dell’Albania, gli Arbëreshë sono oggi circa 100mila in tutta Italia, dal Piemonte alla Puglia, e sono circa 58mila in Calabria, dove abitano in trenta comuni e tre frazioni della regione, in particolare in provincia di Cosenza.

La loro lingua, una sorta di albanese antico, è una delle lingue oggi tutelate dalla Costituzione. «A causa della globalizzazione la lingua si sta perdendo: in passato si riteneva che parlare arbëreshë fosse un segno di arretratezza. Così le giovani generazioni non hanno imparato la lingua dei loro nonni, tramandata per 500 anni» dice Vincenzo Cucci, presidente dell’associazione culturale Vatrarbereshe, che promuove il recupero e la salvaguardia della lingua arbëreshë.

Tanti paesi, inoltre, hanno perso anche la religione dei loro padri: «Solo i comuni più impervi hanno mantenuto il rito greco-bizantino, mentre molti altri, dal Concilio di Trento in poi, sono passati al rito latino», evidenzia Cucci. La provincia di Cosenza, però, resta ancora oggi un riferimento per il rito greco-bizantino: a Lungro, piccolo paesino arbëreshë di poco più di 2mila anime, c’è l’eparca, l’equivalente del vescovo cattolico per il rito greco-bizantino, che amministra ben 30 parrocchie dell’Italia centro-meridionale. Non c’è però solo la religione: «Già dall’Immacolata iniziano le tradizioni natalizie, come ad esempio l’apertura delle botti per assaggiare il vino della stagione che va poi accompagnato con le pettole fritte. La Pasqua, però, è la festa più sentita, visto che si ricorda anche una famosa battaglia di Scanderbeg contro i turchi» racconta Enzo Filardi, proprietario del ristorante Kamastra di Civita, piccolo comune di 819 abitanti della provincia di Cosenza incastonato nel Parco Nazionale del Pollino.

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Cosa si prepara

Dopo 500 anni di convivenza e tradizione è inevitabile che molti dei piatti degli “Albanesi d’Italia” siano simili a quelli calabresi, anche se conservano alcuni specifici tratti peculiari. Le specialità possono cambiare da comune a comune ma ci sono alcune tradizioni distintive: «Una di queste è la cena delle tredici cose, tipica della Vigilia e di San Silvestro, nel quale si preparano 13 pietanze. Il numero vuole ricordare il numero degli Apostoli, 12, più Gesù, che è il tredicesimo» rimarca Cucci.

Le storie cambiano da paese a paese: a Civita, ad esempio, «i piatti sono diversi rispetto a quelli degli altri paesi. Tra i dolci tipici di Natale, ad esempio, c’è il krustul, tipico della tradizione italo-albanese e simile ai cannariculi calabresi, anche se in questo caso si mangia caldo. Il dolce è composto da farina, zucchero, uova e cannella e si condisce con il mosto cotto e la marmellata di piretto, un agrume autoctono simile al bergamotto dolce, privo di acidità.

Ovviamente la pasta fatta in casa la fa da padrona: nelle case arbëreshë di Civita si prepara infatti la dromsa, una pasta simile al cous cous. Si prepara buttando la farina su tutta la spianatoia, bagnando un ciuffo d’origano e schizzando poi la farina, come per “benedirla”. L’acqua che colpisce la farina forma dei grumi e crea appunto questa pasta così particolare», sottolinea Filardi.

Tradizioni diverse, invece, per gli altri paesi della provincia. «A Falconara Albanese, un’antica tradizione vuole che il capo famiglia presieda alla frittura delle krispele: mentre lui regge il manico della padella, la padrona di casa cala nell’olio bollente la pasta lievitata alla quale dava la forma della ciambella o di una palla ripiena di acciughe. A San Benedetto Ullano, invece, si usa confezionare in questa occasione dei pani speciali fatti in casa, i cosiddetti natallizet, che rappresentano dei pupazzetti, e poi due pani speciali che rappresentano il Capodanno, chiamato kapudhani, e l’Epifania, chiamato Befania, da consumare in queste due occasioni» racconta Cucci.

Non sono i soli: a Firmo, paesino di poco più di 1800 abitanti «è tradizione confezionare in casa il dolce tipico di Natale, chiamato çiçirata, a base di farina, uova e un pizzico di sale. Una volta formato l’impasto, si lavora la pasta e si ricavano dei bastoncini che vengono resi simili a piccoli ceci. Nei comuni catanzaresi arbëreshë invece, come Caraffa di Catanzaro e Vena di Maida, si preparano le petullelet, delle frittelle a base di farina e patate, impastate come il pane, con forme circolari o allungate, e i nakatulat, dei veri e propri gnocchi giganti a base di latte, uova, zucchero e olio» continua il presidente dell’associazione Vatrarbereshe.

I paesi arbëreshë spesso si notano anche dalla presenza dell’aggettivo “albanese” nel nome, come nel caso di San Cosmo Albanese, Vaccarizzo Albanese e San Giorgio Albanese. «In questi comuni, come anche a San Demetrio Corone e a Santa Sofia d’Epiro, vengono preparati dolci fritti in padella a base di farina, zucchero, uova e miele: tra questi ci sono i krustulit, simili ai cannoli con l’aggiunta di vino e gli skallilet, dalla forma di fusilli intrecciati. Ad Acquaformosa, invece, si preparano soprattutto le grispellet, chiamate “crespelle” in italiano, che sono delle frittelle dolci» conclude Cucci.

Dal pesce alla carne

La tradizione arbëreshë non prevedeva la carne come secondo ma la ngjala, l’anguilla. «Ricordo che a casa mia a Natale si mangiava l’anguilla ma credo che oggi sia un po’ diverso. Solitamente veniva pescata nella Riserva del Raganello ed è quella più piccola, diversa dal capitone che invece è più grande. A Civita e non solo oggi si consuma la carne: qui, ad esempio, va tanto il capretto al tegame, cioè il capretto lattante cucinato al tegame con acqua, olio e origano all’uscita dal forno» evidenzia il proprietario del ristorante Kamastra.

Ovviamente non manca la commistione con alcuni elementi calabresi caratteristici. «Un esempio sono i bocconotti civitesi, come li preparava mia mamma, dalla forma a mezzaluna rispetto a quelli calabresi e con la mostarda di uva nera. Poi ci sono i salami arbëreshë che si mangiano tantissimo a Natale, come il prosciutto e la soppressata. Quest’ultima è differente dalla versione calabrese: mentre la prima è fatta con elementi più di pregio la seconda è più una schiacciata» conclude Filardi.

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Oltre al cibo

Le tradizioni natalizie, però, non si esauriscono a tavola: in molti centri, infatti, dopo la cena arriva il momento della messa. Come racconta Cucci, «in molti centri sopravvivono ancora riti come il falò di una catasta di legna e frasche davanti al sagrato della cattedrale, dove si intonano i tipici canti arbëreshë detti vjersh. In passato, e oggi nei paesini più rurali, il giorno dopo il falò i contadini raccoglievano la cenere e la conservavano per poi spargerla nell’aria durante i temporali. A San Demetrio Corone, dove si celebra la messa con rito greco-bizantino, all’inizio della funzione il sacerdote (chiamato papàs nel rito greco) gira per tre volte attorno ai fedeli con la statua del Bambino Gesù tra le braccia. Dietro di lui si accodano i papà dei bambini nati durante l’anno che reggono ciascuno il proprio piccolo». Storie che sanno di altri tempi.

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