Wanda Marasco: «Racconto Palasciano, la sua etica e la sua follia»

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di
Mirella Armiero

La scrittrice napoletana firma un romanzo sul medico che voleva assicurare le cure a tutti: «Temi che ci riguardano ancora oggi»

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Ferdinando Palasciano, grande medico di Capua, benefattore e sognatore generoso nell’Italia ottocentesca, deciso a curare anche i nemici in guerra e per questo condannato a morte e infine graziato. Poi chirurgo influente e apprezzato, che si fa costruire la bella Torre che svetta ancora oggi a Capodimonte, infine sconquassato dalla pazzia. Su di lui Wanda Marasco costruisce «Di spalle a questo mondo» (Neri Pozza, in libreria dal 21 gennaio), un romanzo potente, complesso, assai contemporaneo, a partire dal ritmo della sintassi a tratti spezzata fino ai temi che si riverberano nel nostro presente. E lo fa attraverso l’invenzione di una lingua immaginifica, sontuosa, febbrile, che scava spietata nei destini individuali e in quelli collettivi, attraverso un’aggettivazione evocativa: «i capelli franosi», una «luce densa, ondosa», o nei verbi: «gli alberi schienavano a terra». Una lingua che fa luce e al tempo stesso crea mistero, individua enigmi. E che dà conto dell’equilibrio di due «vite vacillanti», quelle di Ferdinando e di sua moglie, troppo carichi di tutto il dolore del mondo. Il racconto si apre con l’esplosione della follia che scompagina gli ultimi anni di vita di Ferdinando, ripercorrendo poi per squarci l’infanzia, l’incontro con Olga, la nobildonna russa che lui cura e poi sposa, le ingiustizie subite sul piano politico, le amicizie con Nicotera, Dalbono, Schilizzi e soprattutto con Antonio Ranieri, che condivide con lui il culto di Leopardi. A Wanda Marasco, che nel 2017 è stata nella cinquina dello Strega con «La compagnia delle anime finte», chiediamo di cominciare la nostra conversazione dai motivi della scelta di questo personaggio.

Come nasce l’interesse per Palasciano?
«La Torre di Palasciano fa parte della mitipoietica dei luoghi della mia infanzia e della mia giovinezza. La vedevo costantemente dai miei balconi, come fosse una quinta dell’animo. A volta mi faceva paura, a volte mi destava un umore sognante. Da piccola non sapevo nulla dei suoi abitanti, eppure compare in tutti i miei romanzi. A un certo punto ho iniziato a studiare Palasciano e mi si è aperto un mondo, sono stata sulla sua tomba e ho scoperto la scritta in cirillico che riporto nel romanzo: “Dio non respingere la sua anima sconvolta dalla crudeltà del mondo. Il male che era in lui non era il suo male, ma il male del mondo”. Non potevo non scriverne. È stato un grande personaggio, il primo a proclamare il principio di neutralità dei feriti di guerra. Un monito che oggi viene calpestato, in questi nostri tempi di guerra in cui si spara sui civili, su donne e bambini, quindi mi è sembrato che ponesse temi attualissimi. Ma ho lavorato a lungo, non ero mai contenta, strappavo i fogli, finché le mie amiche scrittrici mi hanno fermato… così in tre anni e mezzo ho finito il romanzo».

E la figura di Olga, la moglie, è prevalentemente di fantasia?
«Di lei si sa meno, se non che ha sistemato tutti i lavori del marito e che era andata da lui a farsi operare per una leggera zoppia. Era una donna colta, conosceva tante lingue e anche il latino. Ma molte cose le ho inventate».

Lei si muove tra la prosa poetica e altri registri, dal grottesco al tragico. Come arriva a questo risultato?
«All’invenzione della lingua arrivo con uno strenuo esercizio nel mio laboratorio, è un lavoro di artigianato, la mia prosa che in passato ha unito dialetto e italiano riflette una scissione psichica tra la lingua materna e la lingua scolastica. Il napoletano per molti anni è stato da me rifiutato come lingua della violenza, della miseria, l’ho ritrovato con la scrittura per il teatro prima, grazie al lavoro con Renato Carpentieri, e poi con la prosa».

A casa sua si parlava dialetto?
«No, anzi era vietato da mio padre. Ma quando mia madre rimase vedova, sola con quattro figli, tirò fuori questa parlata arrabbiata, dialettale. Per questo l’avvertivo come ferina, violenta, ma rifletteva anche l’amore della madre».

Il dialetto in minima parte c’è anche in questa nuova storia, ma non lo parla il protagonista.

«Ferdinando Palasciano era un uomo coltissimo, uno scienziato. Il napoletano lo usa invece Gemito, figura che utilizzo per fare da staffetta: è lui che affida la propria follia a Ferdinando, come mezzo di conoscenza, di scavo».

Gemito è una sua vecchia conoscenza… a partire dal romanzo «Il genio dell’abbandono».
«Sì, quando ho scritto di Gemito ho scoperto che il 1887 è l’anno della sua follia e di quella di Palasciano. Un’annata spaventosa per le intelligenze di Napoli. Mi sono detta che dovevo usare questa coincidenza per la mia storia… ».

Una storia articolata, con tante sottotrame…

«La trama è importante per me ma in nessun caso fa l’opera. Quello è lo stile, come diceva Céline. Di storie ne abbiamo tutti, magari ne ha mille bellissime la mia vicina di casa o qualcuno che incontro per strada… Quella di Palasciano la racconto con una prosa lirica che mi ha concesso la possibilità dello scavo, fino a rendere la scelta finale dei due personaggi di trasformarsi in un gesto poetico, influenzati da Leopardi. In tutta la vicenda naturalmente uso la mia attitudine registica, drammaturgica».

I suoi romanzi sono ambientati nel passato.
«Nel passato ci sono le spiegazioni del tempo presente. Il periodo di Palasciano è dominato dal positivismo, dai successi della scienza, ma non solo. Lui era un uomo etico e si scontrava con le iniquità della storia. Tutte attualissime, peraltro. Dal tradimento delle utopie alle disuguaglianze, per esempio l’accesso alle cure riservato solo a ricchi e potenti. Sono i tempi confusi che seguono l’unificazione, a Napoli ci sono tanti problemi, gli appalti sono tutti in mano agli stranieri. Insomma, le stesse contraddizioni percorrono il nostro presente».

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Come mai entra nell’intreccio anche Leopardi?
«L’idea nasce da una forma di distorsione leggendaria a Capodimonte. Al Moiariello c’è chi sostiene che Leopardi sia stato lì, nella Torre Palasciano. Non è possibile, perché fu costruita nel 1862-63. Ma durante le mie ricerche in quella zona molti mi ribadivano questa convinzione e soprattutto ho scoperto che Palasciano fu molto amico di Antonio Ranieri, furono entrambi senatori della sinistra liberale. Infine, ispirata da un libretto di Loretta Marcon sul cosiddetto giallo della sepoltura di Leopardi ho immaginato che Ranieri avesse aperto il cranio dell’amico per scoprirne il genio e mi ha affascinato l’ipotesi che l’influsso di Leopardi agisse su Olga e Ferdinando».

Cosa pensa dell’industria editoriale di oggi?
«Va in direzione sbagliata. Divorare un libro come un babà, come dice Gabriele Frasca, è la negazione della letteratura. È chiaro che i generi devono esistere, sono comunque espressione di un talento. Ma l’economia del settore lascia il lettore confuso, pronto a farsi trasportare da un libro che avrebbe potuto scrivere da solo. Si dice: che bel libro, l’ho letto in una giornata! Ma non è questa l’idea di letteratura da perseguire. Vince solo il potere mediatico e l’economia divora anche il talento; tutto ciò non è etico. Per questo vorrei dire ai miei colleghi: riflettete. Agite non solo per il vostro libro, ma anche per quelli che ritenete opere letterarie. È necessaria una forma di resistenza, anche se sono pessimista. Siamo tutti egotici, tendiamo a salvare noi stessi. Per questo io provo a praticare una forma di esilio, cercando di restare innocente, lontana da corse, amichettismi e arrampicate. Non fanno bene alla scrittura».

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16 gennaio 2025 ( modifica il 16 gennaio 2025 | 10:52)

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