Baby pensioni, buco da 130 miliardi: quando nel 1973 si decise che si poteva lasciare il lavoro a trent’anni

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di
Enrico Marro

Il governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor decise di concedere alle dipendenti pubbliche con figli di andare in pensione dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di servizio, compresi i riscatti di maternità e laurea

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In Italia ci sono ancora 400 mila persone che prendono la pensione da più di quarant’anni. Il dato è riportato nell’ultimo Rapporto del centro studi di Itinerari previdenziali presieduto da Alberto Brambilla. A questo fenomeno concorre l’allungamento della durata media della vita. Basti pensare che gli ultranovantenni sono circa 800 mila. Ma va detto che quasi la metà di chi prende l’assegno da così tanto tempo è un baby pensionato, cioè un lavoratore o una lavoratrice del settore pubblico cui le leggi del passato hanno permesso di andare in pensione con pochissimi anni di contributi. Una pesante eredità che costa alle casse dello Stato svariati miliardi l’anno.

 Ma chi sono i responsabili di questa follia? Bisogna risalire agli anni del centrosinistra, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, prima della grande crisi petrolifera del 1973-74, quando ancora ci si cullava nell’illusione di una crescita senza fine. Una classe politica miope arrivò al punto, nel 1973, con il governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor e sostenuto, oltre che dalla Dc, dal Psi, dal Psdi e dal Pri, di concedere alle dipendenti pubbliche con figli di andare in pensione dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di servizio, compresi i riscatti di maternità e laurea. Tanto che, per esempio, «una laureata con 2 figli poteva lavorare anche per soli 8 anni e poi pensionarsi a vita», si legge nel Rapporto. Per i dipendenti statali maschi la possibilità di lasciare il lavoro scattava dopo 19 anni, 6 mesi e 1 giorno di lavoro mentre per i dipendenti degli enti locali il diritto alla pensione si otteneva dopo 25 anni, che scendevano a 20 anni per le donne.




















































Baby-pensioni, buco da 130 miliardi: quando nel 1973 si decise che si poteva lasciare il lavoro a trent’anni

Le Baby pensioni un regalo?

Come definire la pensione ai trentenni, se non un regalo? Elisabetta Rosaspina e Gian Antonio Stella, nel 1994 e nel 1997, raccontarono sul Corriere della Sera i casi delle signore Ermanna Cossio e Francesca Zarcone, che erano riuscite ad andare in pensione, rispettivamente, a 29 e 32 anni, dopo aver lavorato come bidelle, con assegni quasi pari alla retribuzione. Insomma, mentre oggi non sono pochi quelli che a 30-35 anni non hanno ancora trovato un lavoro, fino al 1992 (riforma Amato) c’erano giovani che a questa stessa età andavano in pensione. 

Baby-pensioni, buco da 130 miliardi: quando nel 1973 si decise che si poteva lasciare il lavoro a trent’anni

Un errore di cui ancora paghiamo il prezzo. Secondo una dettagliata rilevazione dell’Inps di un paio d’anni fa, i lavoratori che hanno beneficiato delle baby pensioni sono stati circa 256 mila. Quelle ancora vigenti erano quasi 186 mila, di cui 149 mila pagate a donne. La spesa annuale era di circa 2,9 miliardi di euro. L’età media alla decorrenza della pensione era stata di circa 42 anni per le donne e 45 anni per gli uomini. I beneficiari deceduti avevano goduto dell’assegno in media per 28 anni: 29 anni le donne, 26 gli uomini, mentre gli anni di contribuzione erano stati in media di circa 22 per le donne e 25 per gli uomini. 

I costi

Ma quanto sono costate in tutto le pensioni baby alle casse dello Stato? Almeno 130 miliardi di euro a valori attuali, concludeva l’Inps.
Forse, già molti anni fa, quando lo scandalo era evidente, sarebbe stato il caso di intervenire, per esempio assoggettando questi pensionati, che in media prendono poco meno di 1.200 euro al mese, almeno al pagamento di un contributo di solidarietà, oppure al ricalcolo dell’assegno col metodo contributivo, ma nessun governo ha avuto il coraggio di farlo. Del resto, queste persone sono andate in pensione sulla base di leggi di Stato e il tabù dei cosiddetti «diritti acquisiti» si è dimostrato, in questo caso, difficile da abbattere.

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17 gennaio 2025 ( modifica il 17 gennaio 2025 | 11:43)

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