Finora si è sempre pensato che il presidente americano (ri)eletto avrebbe lasciato mano libera alla destra israeliana. Ma l’accordo su Gaza non è il primo segnale che invece possa volere una svolta vera: pace tra Israele e Arabia Saudita che passi per uno Stato palestinese e stabilità regionale. Per lui sarebbe una consacrazione storica finora impensabile
«Che cosa vi serve da Israele per fare effettivamente la normalizzazione?». «Ho bisogno di tranquillità a Gaza e di un percorso politico chiaro per i palestinesi, per uno Stato». Il dialogo tra Antony Blinken, capo della diplomazia di Joe Biden, e Mohammed bin Salman, detto MbS, principe reggente dell’Arabia Saudita, è riportato da Bob Woodward nel suo ultimo libro, War (edito in Italia da Solferino). Risale ai mesi successivi al pogrom di Hamas contro i kibbutz israeliani del 7 ottobre 2023. Il grande giornalista (per i più giovani: è il co-autore dello scoop sul Watergate, mezzo secolo fa) riporta la conversazione nei dettagli. Ed è una conversazione importante, perché proprio adesso che Donald Trump sta per giurare di nuovo alla Casa Bianca e che – salvo sorprese sempre possibili – la tregua a Gaza sta per decollare, il fattore saudita è decisivo. Ed è quello che, a sorpresa, potrebbe spingere il ri-presidente americano a una mossa spettacolare, quella mai riuscita ai suoi predecessori: una pace vera in Medio Oriente, ovvero una pace che dia uno Stato ai palestinesi e la vera sicurezza a Israele.
Domanda preliminare: i sauditi tengono davvero allo Stato palestinese? Il padre di Bin Salman ci provò anche dopo l’11 settembre, senza successo. Ora il suo erede non è proprio un fan della causa: quando Blinken gli chiese perché avesse cambiato idea, mentre prima del 7 ottobre sembrava convinto alla pace con Israele anche senza Palestina, il principe rispose senza infingimenti: «Non ha molta importanza. Ma ho il 70% della popolazione più giovane di me. Prima del 7 ottobre, non prestavano attenzione alla Palestina e al conflitto israelo-palestinese. Dal 7 ottobre, si concentrano solo su quello. E ho altri Paesi nel mondo arabo, nel mondo musulmano che si preoccupano profondamente. Non tradirò il mio popolo».
Quando Blinken provò a piegare la cosa a Benjamin Netanyahu, il premier israeliano rispose che, in cambio della pace con i sauditi, avrebbe offerto un wordsmithing, un’«interpretazione creativa» della loro richiesta di «percorso per la Palestina». Il segretario di Stato provò invano a spiegargli che MbS faceva sul serio. Da quel momento, e fino a oggi, Netanyahu ha preso tempo con l’amministrazione Biden, respingendo il suo piano di pace complessivo, che partiva dalla tregua con Hamas negli stessi termini concordati in queste ore e finiva con una Gaza ricostruita dalle potenze del Golfo, il riconoscimento tra Riad e Tel Aviv e uno Stato palestinese in parti della Cisgiordania e a Gaza. «Bibi» ha preferito aspettare che alla Casa Bianca tornasse l’amico Donald. A quel punto, nella mente di Netanyahu l’elaborazione creativa sarebbe stata facile: esattamente come era successo con gli Accordi di Abramo – l’avvio di relazioni formali tra Israele da una parte ed Emirati arabi e Bahrein dall’altra, benedetto da Trump nel 2020 – il premier israeliano avrebbe acconsentito a un accenno formale alla soluzione dei due Stati, e intanto avrebbe incassato un risultato storico: la pace con i sauditi, i custodi dei luoghi santi dell’Islam, la più grande potenza politica ed economica del mondo sunnita.
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Senonché, ora che Trump è tornato, c’è qualche indizio che quello della destra israeliana possa essere stato un colossale errore di calcolo. Non solo i sauditi per ora tengono duro e continuano a condizionare il riconoscimento di Israele alla nascita della Palestina, ma il presidente eletto dà l’idea di non volere assecondare Netanyahu. E in molti osservatori affiora la speranza – o il sospetto, a seconda dei punti di vista – che nella mente di Trump ci sia l’ambizione a un posto nella storia di quelli riconosciuti da tutti come positivo, addirittura nella forma di un Nobel per la Pace. Pace vera, definitiva in Medio Oriente. Non è certo lo sbocco più probabile, ma non è nemmeno impossibile. Proviamo allora a vedere perché può succedere.
1. La durezza di Witkoff Chi è costui? Steven Witkoff è l’inviato di Trump per il Medio Oriente. Un immobiliarista, non un diplomatico. L’amministrazione uscente l’ha coinvolto nei colloqui finali per arrivare finalmente all’accordo tra Israele e Hamas inseguito per mesi. Venerdì Witkoff ha chiamato l’entourage di Netanyahu dal Qatar, dicendo che avrebbe incontrato il premier a Gerusalemme il giorno dopo. Witkoff è ebreo, ma quando gli hanno fatto notare che il giorno dopo era shabbat, lui ha risposto che non gli interessava. L’incontro c’è stato. E Netanyahu si è trovato di fronte alla prima sorpresa: non era lui a pilotare Trump, ma Trump a pilotare lui.
2. L’accordo sugli ostaggi Di fatto, riporta in queste ore la stampa israeliana, Witkoff avrebbe costretto Netanyahu ad accettare l’accordo che ha sempre rifiutato, con tanto di ritiro delle truppe dai luoghi che aveva definito «vitali» per la sicurezza di Israele, come il corridoio Filadelfia, al ridosso del confine tra Gaza ed Egitto. Il premier rinuncerebbe così alla «vittoria finale» sui terroristi ritenuta finora irrinunciabile.
3. L’idiosincrasia di Donald per la «guerra infinita» La guerra infinita è quella che di fatto ha perseguito Netanyahu in questi mesi, e non senza successi: ha ridimensionato in modo impressionante tutti i nemici, Hamas ma anche Hezbollah in Libano e il loro meta-sponsor, l’Iran. Ha recuperato nei sondaggi e pensava di continuare a governare senza problemi con l’estrema destra fino alla scadenza elettorale del 2026. Ma potrebbe avere calcolato male una delle idiosincrasie di Trump: quella, appunto, verso le forever wars. Trump è l’uomo che ha scelto il ritiro dall’Afghanistan, poi concluso con modalità sciagurate da Biden. Ha trattato con i talebani, mostrando di non avere remore al negoziato con nemici, criminali e terroristi quando il deal conviene all’America, o a lui. Se il risultato è la stabilità regionale, quindi, potrebbe riportare in partita – come chiedono i sauditi – l’Autorità nazionale palestinese, che Israele definisce «terrorista» ma riconosce Israele da 30 anni e combatte gli estremisti in Cisgiordania. Scrive Amir Tibon su Haaretz: «C’è un uomo che può porre fine a questa guerra eterna, realizzando al contempo gli obiettivi originari: Donald Trump. Può farlo spingendo l’accordo per il rilascio degli ostaggi in cambio della fine della guerra. Poi, con la fine dei combattimenti e il rilascio degli ostaggi, Israele, insieme a Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e, sì, l’Autorità palestinese, può esercitare una massiccia pressione diplomatica ed economica su Hamas affinché ceda il potere e consegni Gaza all’Autorità palestinese, come condizione fondamentale per la ricostruzione delle rovine dell’enclave costiera».
4. La stanchezza di Israele Il Paese già scioccato dal 7 ottobre è certamente rassicurato dal ridimensionamento di tutti i nemici, ma anche estenuato da una guerra i cui due obiettivi dichiarati – la distruzione definitiva di Hamas e la liberazione di tutti gli ostaggi – si sono rivelati inconciliabili. I vertici militari spiegano di non avere forze sufficienti per reggere sia sul fronte Nord (Libano-Hezbollah), sia perpetuando l’occupazione di Gaza. Un’occupazione che l’estrema destra alleata di Netanyahu persegue esplicitamente come premessa all’espulsione in massa dei palestinesi dalla Striscia come dalla Cisgiordania e a una annessione di tutti i territori contesi da cent’anni. Ma ora irrompe Trump, che in pochi giorni ha ottenuto ciò che non è riuscito in 15 mesi a Biden.
5. Il sogno del Nobel Questo scenario sarebbe il frutto di due elementi in apparente contraddizione e che però sono l’essenza di Trump, ovvero il suo pragmatismo e la sua megalomania. Mettiamoci anche che con «l’amico Bibi» si arrabbiò molto quando nel 2020 si congratulò con Biden per il successo elettorale che Trump contestava. Spiega un altro esperto israeliano, Amos Harel: «Trump agisce in base a un’intricata rete di interessi, concentrandosi sul posizionamento degli Stati Uniti all’interno del quadro strategico globale in rapida evoluzione, oltre a curare il proprio status e prestigio personale». Quali sono questi interessi? «Un importante accordo con l’Arabia Saudita, che prevede la normalizzazione dei rapporti israelo-sauditi, un nuovo accordo nucleare con l’Iran e il premio Nobel per la pace. Comincia a sorgere il sospetto che tutti questi obiettivi siano per lui leggermente più importanti del sogno israeliano di reinsediare la Striscia di Gaza settentrionale o di annettere la Cisgiordania».
6. Il precedente degli Accordi di Abramo Per stare ai fatti, si possono recuperare le considerazioni di un altro osservatore non certo empatico verso Trump. Thomas Friedman ha ricordato nei mesi scorsi che, con gli Accordi di Abramo, «Trump è stato uno dei rari presidenti americani (l’altro fu Bill Clinton alla fine degli anni ‘90, ndr) che ha effettivamente presentato un piano dettagliato (intitolato “Peace to Prosperity“, ndr) per la coesistenza tra israeliani e palestinesi». Il piano prevedeva lo Stato palestinese, con tanto di tunnel e strade che collegassero Gaza e Cisgiordania, ma anche un 30% di Cisgiordania da inglobare a Israele. Netanyahu provò a annettersi quel 30% senza dare in cambio la mini-Palestina prevista dal piano, ma «Trump lo fermò» insieme agli Emirati arabi, che minacciarono lo stop alla normalizzazione. Ora sono i sauditi che, almeno finora, condizionano la normalizzazione alla Palestina. I loro obiettivi primari sono un’alleanza difensiva con gli Stati Uniti e l’avvio di un proprio programma nucleare. Finora l’America li ha condizionati alla pace con Israele, ma per premere su Israele potrebbe decidere di procedere unilateralmente alle intese con i sauditi.
7. Ma Netanyahu può davvero cedere? La risposta più probabile è no, e che cerchi ancora una volta di prendere tempo. Ma, messo alle strette da Trump, potrebbe anche scegliere di rompere il legame con l’estrema destra, magari per un governo più spostato al centro e in cambio di garanzie personali: un salvacondotto giudiziario per i processi per corruzione, o un’inchiesta non troppo incisiva sulle responsabilità del 7 ottobre.
Naturalmente, il confine tra ottimismo e illlusioni è sempre stretto. Ma se c’è uno che può stupire il mondo, e perfino sé stesso, quello è Donald Trump.
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