L’insensato commercio del tonno leone

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Quello che conosciamo come “pesce-leone” è una specie aliena entrata nel mar Mediterraneo attraverso il canale di Suez. È un predatore micidiale e pure velenoso, con quella sua criniera di aculei. Ma il “pesce-leone” oggi, per molti scienziati e ambientalisti, è un altro: il tonno rosso (o pinna blu, bluefin). Nel Mediterraneo è a casa sua dall’alba dei tempi, cibo egualitario che ha nutrito le civiltà rivierasche per migliaia d’anni, pesce totem come il bisonte per gli indiani delle praterie. Oggi, però, finisce tutto dall’altra parte del mondo, in Giappone, Corea, Cina, Stati Uniti, ed è il simbolo di un business di lusso, elitario e scandalosamente insostenibile. Nei ristoranti siciliani, maltesi, greci, spagnoli, croati si mangia perlopiù tonno di serie b, il pinna gialla che arriva dal Pacifico o dall’Atlantico meridionale, anche se ogni anno dal Mediterraneo si prelevano circa 35mila tonnellate di tonno rosso, il bluefin, il più pregiato. Una volta catturato con le reti da circuizione il pesce è trascinato anche per migliaia di chilometri e quindi trasbordato in gigantesche gabbie per essere ingrassato come le oche da fois gras. Dopo mesi d’inchiesta e attraverso tante fonti autorevoli abbiamo calcolato la totale insostenibilità del sistema, a partire da un dato clamoroso: ci vogliono circa quindici chili di pesce azzurro per ogni chilo di grasso acquisito da un tonno rosso in gabbia (negli allevamenti più efficienti di salmone, per esempio, il rapporto è di circa un chilo di mangime per un chilo di grasso). L’esemplare arriva in media ad aumentare di circa il 70 per cento del suo peso: se per esempio entra in gabbia a 150 chili ne esce a circa 255. Dopo i tre o quattro mesi necessari all’ingrasso, dal bacino del Mediterraneo se ne vanno in Asia (ma anche negli Stati Uniti e in Canada) tra le 45 e le 50mila tonnellate di tonno rosso. Per produrle serve una montagna di “pesce-foraggio”: sardine, acciughe, sgombri, spratti, aringhe. Circa 134mila tonnellate di piccoli pelagici scongelate e gettate nelle gabbie per ingozzare questi grandi pesci, finché non sono grassi come richiede il mercato guida giapponese (all’asta di Tokyo nel 2019 si è arrivati a battere la cifra record di novemila euro al chilo per un tonno “allevato” nel Mediterraneo). Per offrire un parametro di come questa “catena alimentare” industriale sia fuori da ogni logica e contro ogni etica, basti pensare che nel 2023 in tutto il Mediterraneo sono state pescate circa 372mila tonnellate di pesce azzurro. Quindi negli allevamenti di tonni (tuna-farm) finisce l’equivalente di più di un terzo dell’intero stock pescato nel Mediterraneo, solo che le aziende si procurano ormai il “foraggio” in ogni mare del pianeta. Si tratta di un colossale patrimonio alimentare sacrificato per il profitto di pochissimi, di un esproprio massiccio di pesce azzurro sano ed economico da mari sempre meno pescosi, che potrebbe provvedere a 670 milioni di pasti (calcolati con porzioni da 150 grammi di pesce commestibile).

“È come allevare leoni da carne, vi pare sensato?”, ci ha detto Emanuela Fanelli, biologa dell’università delle Marche ed esperta di ecologia marina. “L’acquacoltura di predatori apicali è insostenibile da tutti i punti di vista. L’allevamento del tonno rosso oggi è l’esempio più clamoroso dell’ingiustizia sociale e ambientale. Il fatto è che sott’acqua è facile nascondere le ingiustizie, commettere qualunque porcheria”, denuncia Fanelli. Anche Marcel Kroese, rinomato biologo e consulente per le politiche marittime per governi e ong, ha paragonato il tonno da ingrasso al re della savana: “Il pesce azzurro è l’equivalente delle gazzelle. A nessuno verrebbe in mente di ammazzarne migliaia e migliaia per commercializzare le bistecche di un felino che svetta sulla catena alimentare. Invece nelle acque del Mediterraneo succede proprio questo”.

La superpotenza dell’allevamento di tonno rosso è Malta. Possiede 26 gabbie da ingrasso su un centinaio sparse tra Spagna, Italia, Croazia e Portogallo, anche se le sue acque territoriali sono le più limitate tra i paesi mediterranei dell’Unione europea, meno di un ventesimo di quelle italiane. La centrale operativa è Marsax­lokk, villaggio di pescatori nella parte orientale dell’isola. Ogni giorno da qui salpano cinquecento tonnellate di pallet di pesce azzurro congelato, pari a trenta tir, per sfamare i tonni nelle gabbie collocate a una decina di miglia dalla costa. L’area della logistica e dei moli gestiti dal consorzio degli allevatori è protetta e sorvegliata come una zona militare. L’accesso è impossibile. Ottenere informazioni è complicato ovunque nella piccola Marsax­lokk: è uno di quei posti dove è sconveniente fare domande. Quei pochi che parlano lo fanno in forma anonima. Quando chiedi del business del tonno cala un mutismo molto simile all’omertà di certi ambienti mafiosi. Come fosse un affare da pochi spiccioli, mentre l’export dei tonni ingrassati rappresenta il 90 per cento dei profitti dell’intero settore ittico dell’isola. Già dall’aereo è impossibile non notare gli anelli che galleggiano nel blu, isolette del tesoro di una cinquantina di metri di diametro collocate a debita distanza dalla costa e dalla vista dei bagnanti. Appese sott’acqua ci sono enormi reti circolari profonde una quarantina di metri che contengono complessivamente tra le 20 e le 25mila tonnellate di “oro rosso” nella fase di massimo ingrasso. Tristan Camilleri, biologo e consulente per la Federation of maltese aquaculture producers ammette che “ogni anno nelle gabbie di Malta entrano circa tredicimila tonnellate di tonno”. Nel 2022, ci ha detto, “ne abbiamo venduti per più di duecento milioni di euro”. Lo stesso anno i profitti delle esportazioni del tonno rosso dal bacino del Mediterraneo in Giappone si aggiravano sui seicento milioni di euro. Sui banchi del pesce di Marsaxlokk il tonno fresco è venduto per tre euro al chilo – “si tratta di pochi esemplari commerciati illegalmente, spesso trafugati dalle gabbie” – confida una cliente – contro i circa 32 euro al chilo ricavati in Giappone dalle grandi aziende importatrici, prima di tutte la Mitsubishi, che controlla il 40 per cento del mercato nipponico.

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Mar Mediterraneo orientale, luglio 2024

(Nanni Fontana)

Nonostante la poliziesca vigilanza imposta dagli allevatori intorno agli impianti (incluso l’obbligo alla segretezza per tutto il personale), un giorno del luglio 2024 abbiamo l’opportunità d’immergerci in una gabbia con le bombole, insieme a due sub compiacenti. Ci troviamo sospesi al centro di un vortice di cinquecento tonni tra i 200 e i 400 chili, proprio quando devono mangiare, mentre una condotta pompa decine di tonnellate di “foraggio”, pesce azzurro ingurgitato voracemente in velocità da una massa di pesci argentati lunghi due, tre metri e che ci sfrecciano intorno quasi sfiorandoci. Un’esperienza da brivido, ma siamo stati avvertiti che nessun tonno si azzarderebbe a toccarci, perché, pur essendo animali enormi e potentissimi, sono più delicati delle alici che mangiano: hanno un sistema immunitario debole e basta un graffio a ucciderli. I due sub, quando i pesci hanno finito di mangiare, imbracciano un lungo fucile calibro 12. Con una destrezza acquisita in anni d’esperienza riescono a distinguere, nella spirale compatta di corpi lanciati in circolo, quelli della taglia stabilita, che oggi è tra i trecento e i 320 chili. Il margine d’errore è di pochi chili. Sparano a colpo sicuro alla testa del tonno, che interrompe istantaneamente la sua traiettoria dentro una nuvola scura e torbida di sangue. I compagni lo evitano con un impercettibile colpo di coda. E proseguono la folle giostra. Poi il tonno ammazzato viene imbragato e issato a bordo della nave appoggio con un argano, pronto per essere surgelato a meno settanta gradi e cominciare il lungo viaggio verso i mercati orientali. L’operazione si ripete una decina di volte nel giro di mezz’ora.

Gabbie per l’ingrasso dei tonni, mar Mediterraneo orientale, luglio 2024

(Nanni Fontana)

Dopo una lunga indagine sui “pescecani” che governano il mondo opaco e spesso illegale dell’allevamento in batteria dei tonni, a stare lì sotto, nella gabbia dei pesci leone, ci appare in tutta la sua perversa dinamica l’aspetto più drammatico dell’intera storia: questo sistema dell’ingrasso in cattività – solo teoricamente controllato – è nato nei primi anni duemila come alternativa alla caccia selvaggia al tonno rosso che rischiava l’estinzione a causa della pesca intensiva. Ora, per alimentare il bulimico mercato di lusso del sushi e del sashimi, si dà fondo a quel che resta del povero pesce azzurro, cioè della preda. Come ci ha confessato – anche lui a patto di non farne il nome – un biologo responsabile di uno dei più importanti allevamenti nel Mediterraneo, “oggi l’emergenza non riguarda il predatore, ma la preda. Il vero problema è lo sfruttamento intensivo del pesce azzurro, già ridotto ai minimi termini, che viene saccheggiato per un business che non ha niente a che vedere con la sostenibilità. Nel mio lavoro contano solo i numeri, si tratta di matematica e nient’altro. L’unica sostenibilità è quella finanziaria”.

La gestione e conservazione degli stock di tonno rosso è monitorata da un’organizzazione internazionale intergovernativa, l’Iccat, con sede a Madrid. Sulla base di studi scientifici, nel 2006 è riuscita a imporre regole molto rigide per arginare il pericolo d’estinzione della specie causato dalla pesca intensiva; ma da quando ha autorizzato il sistema delle gabbie da ingrasso, sono proprio gli scienziati ad accusare l’organizzazione di essere più dalla parte degli allevatori che dei tonni. Sono sotto tiro in particolare gli ispettori inviati sui pescherecci e negli impianti d’ingrasso per controllare il rispetto delle quote e troppo spesso distratti (o pagati per esserlo) di fronte a violazioni che implicano profitti milionari, come quelli che derivano dai conteggi manipolati dei tonni catturati e trasferiti nelle gabbie, e dalla valutazione del peso con tecnologie gestite in modo come minimo approssimativo. L’Iccat e gli oligarchi dell’ingrasso presentano questa filiera come la soluzione migliore per soddisfare la domanda senza aumentare il numero di capi abbattuti. Il ragionamento è: peschiamo un tonno, lo ingozziamo, e lo vendiamo ai giapponesi al prezzo di due. Peccato che la formula abbia conseguenze ecologiche e ambientali devastanti, oltre al fatto di legittimare uno sfruttamento di risorse di stampo coloniale, dove i giapponesi colonizzano le acque mediterranee: il tonno rosso “europeo” come il cacao prodotto in Africa, inaccessibile per gli africani. “Si sacrificano enormi stock di pesce azzurro per trasformare il tonno in una sorta di versione marina dei manzi Wagyu, quelli selezionati in Giappone per ottenere carne intensamente marmorizzata”, ci ha detto il biologo sudafricano Marcel Kroese, da molti anni impegnato contro lo sfruttamento intensivo degli oceani. “Praticamente decimiamo le riserve di pesce economico per alimentare pesce extralusso destinato ai mercati d’élite. Una follia assoluta”. Nei vasti spazi oceanici il thunnus thynnus impiegherebbe molti anni a mettere su tutto quel peso che acquista in una stagione chiuso in gabbia. È uno dei pesci più longevi, può arrivare a quarant’anni e crescere fino a ottocento chili. Nell’ecosistema queste grandi creature, solcando i mari, con il loro moto costante contribuiscono al ricambio di ossigeno e al circolo delle sostanze nutrienti. Oggi crescono raramente oltre i quattrocento chili, perché sono catturati prima di raggiungere la piena maturità. Gli scienziati indipendenti sostengono che così salta l’equilibrio della specie: “Se applichiamo il criterio a noi umani”, dice Kroese, “è come se ci fosse un incentivo a eliminare più adolescenti possibile”. Questo perché il sistema “governato” dall’Iccat autorizza a trasformare ogni anno tra luglio e ottobre giovani tonni in pesci obesi che fruttano centinaia di milioni di euro, diventando, come succede a Malta, addirittura un’attività industriale trainante, monopolizzata da sei aziende che fanno capo a una decina di famiglie: un cartello che detta le regole a tutti gli allevatori del Mediterraneo. Un boom ittico che coincide con il boom edilizio dell’isola dello scorso decennio: abbiamo scoperto che i quattro principali allevamenti – Mff, Ta’ Mattew, Fish&Fish e Mare Blu – sono diventati anche grandi imprese d’investimento nel settore immobiliare.

Come se fosse un affare di qualche spicciolo, mentre l’export dei tonni ingrassati rappresenta il 90 per cento dei profitti del settore

Le “stalle del mare” adesso rischiano grosso, perché scarseggia il foraggio. “Trovare scorte di pesce azzurro è diventato il problema principale del settore”, ci dice un osservatore Iccat che riusciamo a incontrare in un ristorante a La Valletta. È reduce da due settimane di pesca a circuizione in acque internazionali tra Malta e la Libia, a bordo di un peschereccio spagnolo. “Si allevano così tanti tonni che ormai c’è una competizione sfrenata per accaparrarsi le scorte. Gli stock di piccoli pelagici sono sotto enorme pressione anche a causa della produzione di farine e oli. Se si rompe questo anello cruciale della catena ittica, il mare si ferma. Un rischio chiaro a tutti, tranne a chi continua ad arricchirsi”.

La Tokyo dell’ottocento

Sushi e sashimi nascono come street food nella Tokyo dell’ottocento. Allora i tagli più grassi del tonno – chiamati toro e oggi considerati i più pregiati – non avevano mercato, erano usati come cibo per gatti. Si preferivano le parti magre. “L’arrivo degli statunitensi nel dopoguerra cambia tutto”, sostiene Sasha Issenberg, autrice del libro The sushi economy. Furono loro a contaminare la tradizione giapponese con l’idea che la carne di tonno più grassa, dalla consistenza burrosa e il gusto che ricorda quello del manzo, rappresentasse un cibo speciale. Poi la diffusione su scala globale della moda dei bocconcini di toro crudi, simbolo di status economico e di sana modernità, ha fatto il resto. Ecco dunque la comparsa del “pesce-leone”, prodotto non in laboratorio ma nei consigli d’amministrazione delle grandi aziende giapponesi.

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I tonni hanno un elevato fabbisogno energetico, perché devono mantenere alta la temperatura corporea e, per respirare, sono costretti a nuotare costantemente. Sono tra i pesci più veloci al mondo, raggiungono anche gli ottanta chilometri all’ora per immergersi fino a mille metri e attraversare l’Atlantico in una quarantina di giorni e poi riprodursi nel Mediterraneo. Con tutta quest’attività è chiaro che il rapporto tra quanto un tonno rosso mangia e quanto ingrassa sia molto basso. Ha appunto bisogno di grandi quantità di pesciolini ogni giorno. Secondo David Angel Martinez Cañabate, vicedirettore del gruppo Ricardo Fuentes, principale allevatore nel Mediterraneo e titolare di numerosi impianti anche a Malta, “allevare il bluefin ha un impatto positivo sullo stock di pesce azzurro”. È il mantra scientifico dell’Iccat e degli allevatori: “Se il tonno restasse libero, alla fine del suo ciclo vitale avrebbe ingurgitato una quantità molto maggiore di pesce azzurro”. È tuttavia legittimo dubitare dell’attendibilità scientifica dell’Iccat se si consulta per esempio la nuova tabella d’ingrasso appena approvata. I limiti di crescita sono indicati in teoria per contrastare le frodi: se si dichiara di aver catturato un tonno di cento chili e quando lo si ammazza in gabbia dopo quattro mesi ne pesa quattrocento è chiaro che qualcosa non torna. Ma ecco che nel 2023 l’Iccat ha aumentato i parametri, consentendo crescite assurde: ha stabilito che l’eccezione di un esemplare capace di ingrassare del 90 per cento in una stagione sia la norma. A denunciarlo è Juan José Navarro, del gruppo di allevatori spagnoli Balfegó, ritenuti tra i più corretti: “Una tabella così alta rischia d’incoraggiare l’illegalità. È come se si decidesse che, dato il caso eccezionale di un quindicenne alto due metri, qualunque adolescente possa crescere così”. Quel che intende Navarro è che gli allevatori possano sottostimare il peso dei tonni pescati per poi dichiarare che i chili in eccesso sono frutto del tempo passato in gabbia.

Dietro al sushi e al sashimi c’è un’industria altamente inquinante. Pescare il foraggio, refrigerarlo e trasportarlo incide per circa due terzi sulla sua impronta carbonica: secondo un recente studio del Wwf, allevare un chilo di carne di tonno rosso produce circa 10,6 chili di anidride carbonica equivalente. La stessa quantità di tonno pescato con reti a circuizione e semplicemente refrigerato, invece, genera circa 2,4 chili di anidride carbonica equivalente, quanto un avocado. C’è poi quel che succede nelle aree d’ingrasso: la concentrazione di tonni e le migliaia di tonnellate di pesce azzurro immesso nelle gabbie rilasciano grandi quantità di residui organici. Nel 2017 le macchie oleose e maleodoranti che impestavano le spiagge maltesi hanno obbligato il governo a ordinare lo spostamento degli impianti più al largo. A discapito dei pescatori locali. Le gabbie di Is-Sikka tan-Nofs, a sei chilometri dalla costa nordorientale dell’isola, si trovano su un’area pescosissima, una “miniera” che ha sfamato per secoli generazioni di pescatori a Marsax­lokk.

I tonni hanno un elevato fabbisogno energetico, perché devono mantenere alta la temperatura corporea e nuotare sempre

Tra l’altro la presenza dei tonni e dell’abbondante “mangime” attira ancora più pesce. Ma il cartello degli allevatori è riuscito a vietare l’accesso a qualsiasi imbarcazione. “Hanno transennato quell’area marina con delle corde, non ci lasciano passare”, dice Albert, un pescatore di 63 anni, mentre sta seduto fuori di casa a fumare. “Ai piccoli pescatori come me ormai rimangono le briciole. Fino a una decina d’anni fa guadagnavo bene, ora sono contento che mio figlio stia lontano dal nostro mare”.

Procurarsi questa montagna di pesce azzurro è sempre più complicato. La domanda si concentra nel periodo d’ingrasso e la competizione è feroce, anche perché gli stock scarseggiano e bisogna contendersi quello che offre il mercato globale. Nel 2023 l’allevamento maltese Mff ha dovuto importare gran parte del suo pesce-foraggio dalla Cina e dal Messico, con il rischio di far arrivare anche patogeni sconosciuti ai tonni del Mediterraneo. “È un vero incubo logistico”, ammette Charlon Gouder, direttore del consorzio degli allevatori maltesi. Non vuole però commentare ciò che abbiamo potuto documentare, e cioè l’importazione di prede inquinate che finiscono nella carne del tonno, predatore che sta in cima alla piramide alimentare.

Mar Mediterraneo orientale, luglio 2024

(Nanni Fontana)

“Il tonno agisce da collettore, filtrando ciò di cui si nutre e trattenendo gli agenti nocivi”, ci ha detto il biologo di un grande allevamento che ha accettato di rivelare uno degli aspetti più inquietanti della filiera. Racconta che la difficoltà di reperire grandi quantità di pesce azzurro in un arco di tempo così limitato spinge i fornitori a proporre agli allevatori pesce considerato nocivo per l’essere umano. Fingendoci intermediari per conto di un grande impianto, abbiamo contattato un’azienda finlandese che rifornisce regolarmente allevamenti di tonno, la quale ci ha proposto di comprare aringhe provenienti da una zona del mar Baltico – il golfo di Botnia – dove, per la maggior parte dell’anno, l’acqua è così inquinata da rendere non commestibili i piccoli pelagici. “Il mar Baltico è come una vasca da bagno, tutte le tossine rimangono lì dentro per almeno quarant’anni”, ci ha detto Christopher Zimmermann, direttore del Thünen institut of baltic sea fisheries. “I metalli pesanti, provenienti dalle ex miniere di ferro svedesi e dalle industrie russe, impiegano ancora più tempo a smaltirsi. Nel golfo di Botnia il pesce è tossico. Vale soprattutto per quello grasso come l’aringa, poiché la maggior parte delle tossine è liposolubile. Pensate che le aringhe di quest’area erano vendute principalmente agli allevamenti da animali da pelliccia in Russia”.

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Mar Mediterraneo orientale, luglio 2024

(Nanni Fontana)

Un giorno ci dà appuntamento nel porto della Valletta il capitano di un peschereccio a circuizione. Lavora in mare da più di quarant’anni e comanda una barca libica che vende i tonni agli allevatori maltesi. Il suo vascello è stato appena speronato da un peschereccio turco in un duello per aggiudicarsi un banco di tonni in acque internazionali. “È una guerra”, dice. “Un ambiente sempre più pericoloso”. Secondo lui la fase della cattura è quasi più insostenibile dell’allevamento. Malta ha stretto accordi commerciali con le marinerie di mezza Europa, così che il tonno allevato qui può essere pescato alle Baleari, a più di 1.300 chilometri di distanza. Non importa che per rimorchiarlo fino alle gabbie maltesi s’impieghino anche quattro settimane. E che nella traversata muoia una grande quantità di tonni: “A volte possiamo perdere anche il 40 per cento del carico, dipende da tanti fattori, il numero di animali nella rete, la velocità di crociera, le condizioni del mare. Basta il flash di un fulmine per stressarli fino a ucciderli. Se scoppia un temporale notturno i rimorchiatori devono puntare in acqua dei fari. I morti andrebbero teoricamente riportati alle autorità e sottratti alla quota concessa a ciascuna imbarcazione”, dice il capitano, “ma questo non avviene mai”. Lo conferma l’osservatore che incontriamo al ristorante: “La gabbia è trainata a cinquecento metri di distanza dai rimorchiatori e tu che sei a bordo cosa puoi controllare? Ogni giorno muoiono tonni, escono i sub, tagliano la rete, fanno uscire i cadaveri e la chiudono. E tu non vedi niente”.

Il ruggito del “pesce-leone” echeggia nei palazzi del potere dell’isola. Il cartello degli allevatori impone la legge del profitto nonostante sia stato messo più volte sul banco degli imputati. È il caso dell’inchiesta giudiziaria Tarantelo, partita in Spagna nel 2017, che ha accertato come dalle gabbie maltesi arrivavano grandi quantità di tonno illegale. Oppure come nel caso denunciato dalla Commissione europea nel 2023, che ha identificato nell’isola i mandanti di una partita illegale di tonno diretta agli allevamenti croati. Anche chi, come Alicia Bugeja Said, sottosegretaria alla pesca, è stata eletta per contrastare lo strapotere del cartello e difendere gli interessi dei piccoli pescatori, è passata dall’altra parte: “È un business come un altro”, ci ha detto nel suo ufficio di Città Pinto, periferia industriale della Valletta. “Non può essere troppo controllato, altrimenti si rischia di fermare la crescita. E la crescita porta posti di lavoro”.

Anche quando il modello di crescita è così insostenibile? “Tutti gli allevamenti intensivi hanno il problema di alimentare gli animali. Non vedo differenza tra le mucche e i tonni. Ma grazie a Dio non tutti possono permettersi di mangiare il tonno rosso”.

Marzio G. Mian è giornalista e scrittore. Il suo ultimo libro è Volga blues (Feltrinelli 2024). Nicola Scevola è un giornalista freelance, collaboratore di vari giornali e tv italiani e stranieri. Julia Amberger è una giornalista e scrittrice tedesca. Questa inchiesta è stata realizzata con il supporto di Investigative Journalism for Europe.

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