Verso la tregua: paure e speranze dei giovani italiani in Israele

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Dopo lunghe trattative, sembra che sia pronta un’intesa per un cessate il fuoco a Gaza. L’accordo, secondo quanto comunicato dal primo ministro del Qatar Mohamed Al Thani, prevede che la tregua abbia inizio a partire da domenica 19 gennaio. Secondo quanto emerso finora, in una prima fase lunga 42 giorni, saranno liberati 33 ostaggi israeliani e circa mille detenuti palestinesi. Ma tutto è ancora in divenire, sembra che Hamas abbia bloccato gli accordi, alzando l’asticella delle richieste allo Stato d’Israele, intenzionato come non mai a riportare a casa gli ostaggi. Un lungo anno di conflitto, lacerante per i familiari dei rapiti e per gli ebrei di tutto il mondo.
All’alba della possibile tregua, quali sono le paure e le speranze dei giovani italiani in Israele? Coloro che hanno vissuto l’orrore del 7 ottobre, e dei consecutivi mesi di conflitto, tra chiamate concitate ai loro parenti a chilometri di distanza, sirene e bunker. Ne abbiamo parlato con Gavriel, David, Fabiana, Miriam e Benedetta, tutti giovani romani trapiantati in Israele con la voglia di una risoluzione duratura per lo Stato ebraico, divenuto ormai la loro casa.

Fabiana Moresco (29 anni) lavora in una start-up e si occupa della gestione dei clienti e, in parallelo, sta completando un master in neuropsicologia presso l’università Bar Ilan. Vive in Israele da più di 10 anni. “Come vedo questa tregua? Da un lato, vorrei mi approcciare con ottimismo: credo che possa essere un’opportunità per un futuro migliore, un primo passo verso una pace più duratura. Una tregua, anche temporanea, può restituire un senso di “normalità” alla vita quotidiana, permettendo alle persone di vivere senza il costante peso della paura. È anche una possibilità per entrambe le parti di riflettere sulle conseguenze del conflitto e considerare soluzioni più costruttive – spiega Fabiana – Dall’altro lato, non posso ignorare che la situazione è estremamente delicata. Basta un passo falso per compromettere tutto. C’è il timore che questa tregua venga vista non come un vero tentativo di pace, ma come una mossa strategica, un momento per riorganizzarsi in vista di nuovi scontri. Questo pensiero è basato su esperienze passate che hanno visto promesse infrante e tensioni riaccendersi rapidamente”.
Benedetta Sed (26 anni) si occupa di risorse umane – talent acquisition, vive da 8 anni in Israele. “Da una parte questa tregua non può che renderci felici, è più di un anno che dura questa guerra e nessuno si sarebbe mai aspettato che si sarebbe dilungata così tanto. Ci sentiamo sollevati, e ad oggi anche vedere tornare a casa due o tre persone rapite sarebbe un enorme felicità per tutti. Girare per la città di Tel Aviv, o in tutta Israele, in spiaggia, in autobus a lavoro e vedere i volti dei rapiti è lacerante per tutti noi. Persino sull’ascensore del mio ufficio c’è l’immagine di un ragazzo che lavorava in quell’edificio. Siamo al 100% con la testa nella guerra, anche se proviamo a pensare ad altro, continuiamo a vedere dovunque foto di soldati e di civili rapiti – racconta Benedetta – Tuttavia, c’è scetticismo, perché l’accordo non prevede il ritorno di tutti i rapiti ma solo di trentatré di loro. Soprattutto abbiamo a che fare con dei terroristi, quindi c’è la costante paura che possano non mantenere la parola data. Anche l’idea di liberare altri terroristi che hanno a loro volta colpito lo Stato d’Israele non è semplice. Ci sono sensazioni contrastanti: da una parte l’idea che la guerra possa realmente finire, ma dall’altra ci investe un profondo senso di rabbia, sia perché non tutti i rapiti torneranno a casa, sia per la lenta modalità di rilascio che è lacerante e non semplice da sostenere. Speriamo solo che sia tutto vero”.
Gavriel Pacifici (19 anni) vive da quattro anni in Israele. All’età di quindici anni ha studiato alla scuola Mosenson, a Hod Hasharon. Ora è momentaneamente in Italia ma vorrebbe tornare presto in Israele. “Il mio percorso in Israele è stato fantastico, sebbene sia difficile andar via di casa a quindici anni e allontanarsi dalla propria famiglia, lo consiglierei a chiunque perché mi ha fatto davvero crescere. Il 7 ottobre sarei dovuto tornare a casa, dalla mia famiglia per le feste; quando tutto è cominciato mi sono ritrovato in Israele a casa della mia ragazza. Sono stati attimi lunghissimi di paura, per tutti. Successivamente siamo riusciti a tornare a Roma. La guerra grazie ai nostri soldati è stata meno dura, nelle città israeliane ci siamo sentiti protetti, nonostante tutto – ha spiegato Gavriel – sembrerà paradossale, ma mi sentivo più sicuro in Israele che qui in Italia, dove sono investito da un pericoloso antisemitismo. L’accordo di tregua con Hamas non mi convince fino in fondo, so con chi abbiamo a che fare, non mi sento che tutto andrà a buon fine. Mi auguro di cuore che gli ostaggi tornino sani e salvi a casa e vorrei solo che tutto finisse il prima possibile”.
Miriam Sasson (27 anni) vive in Israele da otto anni, ed è un ingegnere informatico. “Non mi sento pienamente convinta di questo accordo, vorrei vedere davvero qualcosa cambiare. Spero che i terroristi mantengano la parola per la liberazione degli ostaggi. Tuttavia, non trovo giusto rimettere a piede libero i militanti di Hamas in cambio dei civili, lo trovo davvero pericoloso. Continuo però a pensare che la priorità sia portare a casa con ogni mezzo i rapiti – aggiunge Miriam – Mi turba anche pensare alle condizioni in cui i rapiti torneranno in casa, potrebbero essere feriti, o Hamas potrebbe star mentendo e molti potrebbero non essere più in vita. Non c’è da fidarsi, c’è solo da aspettare e sperare”.
David Raccah (26 anni) in Israele da quattro anni, ha lavorato per molto tempo nel mondo high-tech a Tel Aviv. “Per quanto riguarda la tregua, ho cercato sempre di informarmi su quanto accadeva in Israele. Da una parte credevo che fosse importante andare fino infondo con la campagna militare contro il terrorismo, in quanto era l’unica via d’uscita per rimuovere completamente le organizzazioni terroristiche che minacciano Israele, nel modo più efficace possibile – spiega David – Oggi invece penso che il massimo sia stato fatto, e con l’appoggio degli Stati Uniti, bisogna il prima possibile portare a casa gli ostaggi e terminare lo stato di guerra. Anche affinché il turismo possa ricominciare e l’economia si possa sollevare. Accanto all’America possiamo fare qualcosa di significativo, ma la cosa più importante è riportare a casa gli ostaggi ora, a qualsiasi costo”.



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